Benvenuti

Questo blog è uno spazio per aiutarsi a riprendere a pensare da cattolici, alla luce della vera fede e della sana dottrina, cosa che la società moderna sta completamente trascurando se non perseguitando. Un aiuto (in primo luogo a me stesso) a restare sulla retta via e a continuare a camminare verso Gesù Cristo, Via Verità e Vita.
Ogni suggerimento e/o contributo in questa direzione è ben gradito.
Affido allo Spirito Santo di Dio, a Maria Santissima, al Sacro Cuore di Gesù e a San Michele Arcangelo questo lavoro di testimonianza e apostolato.
Un caro saluto a tutti e un sentito ringraziamento a chi vorrà contribuire in qualunque modo a questa piccola opera.

S. Giovanni Paolo II

Ci alzeremo in piedi ogni volta che la vita umana viene minacciata... Ci alzeremo ogni volta che la sacralità della vita viene attaccata prima della nascita. Ci alzeremo e proclameremo che nessuno ha l'autorità di distruggere la vita non nata...Ci alzeremo quando un bambino viene visto come un peso o solo come un mezzo per soddisfare un'emozione e grideremo che ogni bambino è un dono unico e irripetibile di Dio... Ci alzeremo quando l'istituzione del matrimonio viene abbandonata all'egoismo umano... e affermeremo l'indissolubilità del vincolo coniugale... Ci alzeremo quando il valore della famiglia è minacciato dalle pressioni sociali ed economiche...e riaffermeremo che la famiglia è necessaria non solo per il bene dell'individuo ma anche per quello della società... Ci alzeremo quando la libertà viene usata per dominare i deboli, per dissipare le risorse naturali e l'energia e per negare i bisogni fondamentali alle persone e reclameremo giustizia... Ci alzeremo quando i deboli, gli anziani e i morenti vengono abbandonati in solitudine e proclameremo che essi sono degni di amore, di cura e di rispetto.

mercoledì 30 novembre 2011

Memento

Ricordo a tutti voi l'iniziativa / invito di preghiera (a Maria) proposta qualche post fa.. 
La potete vedere QUI.
Personalmente penso che la gravità del momento presente (e di quanto potrebbe seguire) possa essere affrontata e superata solo con la preghiera e una seria conversione di noi stessi..
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Volantone Natale 2011 di CL

domenica 27 novembre 2011

Domenica 1^ Avvento (Angelus 52)

Cari fratelli e sorelle!
Oggi iniziamo con tutta la Chiesa il nuovo Anno liturgico: un nuovo cammino di fede, da vivere insieme nelle comunità cristiane, ma anche, come sempre, da percorrere all’interno della storia del mondo, per aprirla al mistero di Dio, alla salvezza che viene dal suo amore. L’Anno liturgico inizia con il Tempo di Avvento: tempo stupendo in cui si risveglia nei cuori l’attesa del ritorno di Cristo e la memoria della sua prima venuta, quando si spogliò della sua gloria divina per assumere la nostra carne mortale.
Vegliate!”. Questo è l’appello di Gesù nel Vangelo di oggi. Lo rivolge non solo ai suoi discepoli, ma a tutti: “Vegliate!” (Mt 13,37). E’ un richiamo salutare a ricordarci che la vita non ha solo la dimensione terrena, ma è proiettata verso un “oltre”, come una pianticella che germoglia dalla terra e si apre verso il cielo. Una pianticella pensante, l’uomo, dotata di libertà e responsabilità, per cui ognuno di noi sarà chiamato a rendere conto di come ha vissuto, di come ha utilizzato le proprie capacità: se le ha tenute per sé o le ha fatte fruttare anche per il bene dei fratelli.
Anche Isaia, il profeta dell’Avvento, ci fa riflettere oggi con una preghiera accorata, rivolta a Dio a nome del popolo. Egli riconosce le mancanze della sua gente, e a un certo punto dice: “Nessuno invocava il tuo nome, nessuno si risvegliava per stringersi a te; perché tu avevi nascosto da noi il tuo volto, ci avevi messo in balia della nostra iniquità” (Is 64,6). Come non rimanere colpiti da questa descrizione? Sembra rispecchiare certi panorami del mondo post-moderno: le città dove la vita diventa anonima e orizzontale, dove Dio sembra assente e l’uomo l’unico padrone, come se fosse lui l’artefice e il regista di tutto: le costruzioni, il lavoro, l’economia, i trasporti, le scienze, la tecnica, tutto sembra dipendere solo dall’uomo. E a volte, in questo mondo che appare quasi perfetto, accadono cose sconvolgenti, o nella natura, o nella società, per cui noi pensiamo che Dio si sia come ritirato, ci abbia, per così dire, abbandonati a noi stessi.
In realtà, il vero “padrone” del mondo non è l’uomo, ma Dio. Il Vangelo dice: “Vegliate dunque: voi non sapete quando il padrone di casa ritornerà, se alla sera o a mezzanotte o al canto del gallo o al mattino; fate in modo che, giungendo all’improvviso, non vi trovi addormentati” (Mc 13,35-36). Il Tempo di Avvento viene ogni anno a ricordarci questo, perché la nostra vita ritrovi il suo giusto orientamento, verso il volto di Dio. Il volto non di un “padrone”, ma di un Padre e di un Amico. Con la Vergine Maria, che ci guida nel cammino dell’Avvento, facciamo nostre le parole del profeta. “Signore, tu sei nostro padre; noi siamo argilla e tu colui che ci plasma, tutti noi siamo opera delle tue mani” (Is 64,7).
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giovedì 24 novembre 2011

Dio mi ha disegnata così (Articoli 69)

Una bellissima storia in un'intervista di Lucia Bellaspiga tratta da Avvenire da cui tutti noi possiamo solo imparare:


La guardi parlare, sprofondata tra i cuscini del divano, e tuo malgrado ti trovi a fissare le sue braccia (o sono gambe?), il gesticolare delle mani affusolate (o sono i piedi?), l’agile movimento delle dita mentre sfoglia le pagine del suo libro e trova la pagina che cercava: «Ecco qui. È il punto in cui racconto che il 18 giugno del 1974 vengo al mondo e i miei si tengono per mano mentre decidono non di "accettarmi" ma di accogliermi con gioia infinita: sapersi amati fa assolutamente la differenza». Simona Atzori ha ormai calcato i palcoscenici del mondo, è volata sulle punte con l’étoile della Scala al "Roberto Bolle and Friends", è stata Ambasciatrice della danza nel Giubileo del 2000, ha aperto le Paraolimpiadi invernali del 2006 e oggi porta in giro per l’Italia "Me", il primo spettacolo realizzato interamente da lei, insieme alla sua compagnia "Simonarte Dance Company" e ai ballerini della Scala di Milano. Ma per molti resta prima di tutto "la danzatrice nata senza braccia". «Sono rimaste in cielo», annuisce serena. Intorno a lei, ballerina e pittrice, i grandi quadri accatastati al suolo, pronti a partire per la prossima mostra.
Parla rilassata, a "braccia" conserte, le "mani" sul grembo, poi le scioglie e le poggia a terra, dove diventano magicamente i suoi piedi. Di nuovo solleva un piede, lo porta alla testa e con eleganza sinuosa si ravvia i lunghi capelli ricci...


Simona, sono più le tue braccia o le tue gambe? Come le senti?
Domanda interessante (ride), non ci avevo mai pensato. Credo che per la maggior parte del tempo siano braccia. Sono vissuta qualche anno in Canada, dove mi sono laureata, e lì mi dicevano che ero proprio un’italiana da quanto gesticolavo. La sintesi perfetta avviene quando guido, un piede su freno o acceleratore, l’altra "mano" sul volante.


Come reagirono i tuoi genitori, Tonina e Vitalino, alla tua nascita?
Allora non c’era l’ecografia, fui una bella sorpresa, non c’è che dire. I primi due parti per mia mamma erano andati male, per questo mia sorella, la sua terza gravidanza, è stata chiamata Gioia. Poi sono arrivata io e mia madre aveva il terrore di perdere anche me. Quando si è svegliata dal cesareo e ha visto i volti cupi degli infermieri, che non le lasciavano vedere la sua bambina, è stata malissimo. Poi ha saputo che invece ero sana e salva, soltanto mi mancavano le braccia. Mamma e papà si sono abbracciati e hanno subito deciso il da farsi: mi avrebbero insegnato a prendere il ciuccio con i piedini. Già prima che io nascessi, mia madre sognava per me che io diventassi ballerina, mi aveva dentro e già immaginava di vedermi volare sul palcoscenico: il suo primo pensiero è stato la chiave della nostra vita, la sua positività ha dato a tutti noi il segreto della felicità..


L’essere ballerina, e quindi snodata, ti ha aiutato a vivere?
La danza mi ha anche aiutata dal punto di vista fisico, è vero, ma non l’ho scelta io, è lei che ha scelto me, così come la pittura, ed entrambe le arti mi permettono di esprimere tutto il mio mondo interiore.


Ora però con "Cosa ti manca per essere felice?" sei anche scrittrice.
Il titolo del libro è la domanda che faccio sempre agli altri. A me non è mancato nulla, nella mia vita non ho avuto scuse né alibi, allora alle persone vorrei dire di non arrendersi alle prime apparenti difficoltà, di non scoraggiarsi mai perché, anche se ti manca qualcosa, puoi comunque essere felice. Di fronte alla foto di copertina, spesso la gente non si accorge che non ci sono le braccia e questo significa una cosa importante: nella vita bisogna guardare quello che c’è, non lamentarsi per ciò che non abbiamo. Qualcosa, tanto, manca a tutti, anche a chi ha braccia e gambe in regola: l’esteriorità si nota prima, ma se il vuoto è interiore il dolore è più straziante, più limitante di due arti rimasti in cielo.


Qual è il tuo messaggio?
La vita è un dono straordinario e non va sprecata. Io tengo incontri motivazionali in aziende, banche e scuole e sempre cito Papa Giovanni Paolo II: «Prendete la vita nelle vostre mani e fatene un capolavoro». È una verità assolutamente concreta: quando hai un dono sei felice, prima di tutto, e poi vuoi adornarlo, farlo più bello, e questo cerco di fare anch’io. Quando narro la mia storia sembra che racconti una favola, e in effetti è la "mia" favola, è proprio uno spettacolo di vita. Ognuno di noi può fare questo, basta crederci, purché non a metà, crederci veramente. Non è facile, ma nulla è facile nella vita.


Qual è il tuo rapporto con il Creatore?
Ringrazio il Signore non per la vita in generale, ma per avermi disegnata esattamente così. Il mio grazie quotidiano è cercare di rendere questa mia vita un capolavoro, come lui ha voluto che fosse.


Hai anche l’amore... Come lo hai riconosciuto in Andrea, il tuo fidanzato, istruttore di volo?
L’amore è soprattutto l’uomo che gioisce dei tuoi successi e li condivide. Due strade parallele ma una crescita insieme.


Perché non viene da dire che sei una disabile? Perché ti si conosce e si pensa "che fortuna ha avuto a nascere così"?
Perché è vero. Che cosa significa disabile? Chi lo è e chi no? E colui che è sano, fino a quando lo sarà? Non è questo che conta, non certo due braccia o due occhi, e spesso proprio nella caduta si scopre il senso della vita, come testimoniava Ambrogio Fogar e come racconta Mario Melazzini, il medico malato di Sla. Per molti questo è incomprensibile, perché guardano l’avere e il fare anziché l’essere.


Potessi chiedere al Signore le tue braccia, lo faresti?
In Kenya ho danzato per carcerati, malati di Aids e bambini di strada e mi hanno fatto la stessa domanda. Ti rispondo come a loro: se fossi nata con le braccia, tu ora non staresti parlando con me, ma con un’altra persona. E io amo Simona.
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mercoledì 23 novembre 2011

Un dono misterioso (Contributi 549)

Una testimonianza di Accursio Ciaccio missionario della Fraternità Sacerdotale San Carlo a Denver:


Un giorno di qualche mese fa, ero da solo in parrocchia e ho ricevuto una telefonata da una famiglia per organizzare un funerale. Di solito in questi casi i parrocchiani vengono in chiesa da noi; questa famiglia invece aveva lasciato un messaggio chiedendo di poter andare da loro. Quel giorno non avevo la macchina a disposizione, per cui sono andato in bici. Quando sono arrivato, dentro di me non mi sentivo esattamente come Giussani, davanti ai gradini del Berchet, con la sua bicicletta… La situazione era molto drammatica: due genitori che avevano perso nel giro di poche ore un figlio di vent’anni a causa di una meningite. Loro continuavano a chiedermi «perché?» e io non avevo molto da dire.
Li ho invitati a partecipare alla messa feriale, quando possibile. Nei giorni seguenti, con mia sorpresa, sono venuti più volte a messa e a trovarmi. Nei giorni dopo il funerale abbiamo continuato a incontrarci, e poi ho proposto loro di venire alla scuola di comunità. In breve, hanno ricominciato ad accostarsi alla Chiesa, e alla vita sacramentale con fedeltà e gratitudine. D’estate sono venuti anche in vacanza con le famiglie. Era una vacanza un po’ dimessa – eravamo una decina di adulti ed altrettanti bambini – dalla quale però sono rimasti colpiti. Si sono sempre più legati a noi preti e poi alla piccola comunità di Denver. Tanto che, di recente, il padre mi ha confidato che, per quanto sembrasse strano, gli veniva da pensare che la morte del figlio potesse essere una grazia.
Un altro passo decisivo nel loro cammino è stato l’incontro con don Massimo in occasione dell’udienza con il Papa. Don Massimo ha semplicemente detto loro: grazie per il dono di vostro figlio. In questo modo la domanda che li assillava, «perché?», ha iniziato a ricevere una risposta piena.
Dal rapporto con loro imparo soprattutto due cose. In primo luogo: ciò che di più grande posso offrire è il mio essere disponibile alla presenza di Gesù nella mia povera persona. Non avevo grandi cose da dire, ma non sono fuggito davanti al loro dolore. È questo che li ha colpiti e li ha spinti a tornare. In secondo luogo, ho sempre cercato di avere questa disponibilità di fronte a tutte le persone che incontro, ma non tutti rispondono come quella coppia. Non sono io a decidere chi si converte e quando. Questo mi rende cosciente della mia responsabilità e del Suo potere.
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Sotto il Tuo manto (Post 131)

E' sotto gli occhi di tutti che la situazione attuale (e non solo del nostro Paese) è tragica. E non parlo solo del versante economico o metereologico, ma anche e soprattutto di quello morale. Il compito primario di chi si dice cristiano e desidera realmente esserlo assumendosene tutte le conseguenze (anche negative) che ne possono derivare è di comunicare Cristo, nelle parole e anche e soprattutto nei fatti.
Riprendo a questo proposito un estratto da un post di un blog amico:
La responsabilità di cambiare le cose cade su ognuno di noi, sul nostro cambiamento che solo può cambiare la realtà.
Se Dio agisce, agisce tramite noi, e se la nostra libertà dice no allora in qualche maniera anche la libertà di Dio viene meno. Non nel senso che Dio non possa fare niente, ma che non può fare niente per noi e su di noi, e quindi anche noi siamo più infelici, perché ci allontaniamo da ciò che è bene.
La possibilità di cambiare concretamente la storia (nostra e del mondo in cui ci troviamo a vivere) è nella nostra libertà che può aderire o meno a Cristo. Se ognuno di noi tende a cambiare se stesso, anche la società cambia.
Ed è per questo che, unitamente a tanti altri amici che gestiscono un blog,  proponiamo ai nostri lettori (ai miei quattro e ai tantissimi altri degli altri blog) di attivarsi concretamente in tal senso, con tre punti, una preghiera, un sacrificio ed un impegno:


1) una preghiera da recitarsi personalmente e quotidianamente: C’è una antichissima tradizione italiana che è quella della Madonna della Misericordia. Ne avrete visto qualche quadro: Maria che con il suo mantello copre e protegge il suo popolo. A Lei ci vogliamo appellare. La preghiera che ci piace proporre (ma, sia inteso, qualunque altra va bene ugualmente) è questa, antichissima:


Sotto la Tua protezione ci rifugiamo, Santa Madre di Dio
Non respingere le preghiere che Ti innalziamo nelle necessità
Ma salvaci sempre da tutti i pericoli,
O Vergine Gloriosa e Benedetta


2) un sacrificio personale: un digiuno, una rinuncia, un’offerta, qualcosa che ci ricordi che il problema siamo noi. (pieno spazio alla fantasia e alla creatività di ciascuno, ma che si tratti di un impegno e di un sacrificio reale)


3) un impegno: affidarsi il giorno 8 dicembre a Maria con la preghiera di Giovanni Paolo II
Maria, Madre della speranza, cammina con noi!
Insegnaci a proclamare il Dio vivente;
aiutaci a testimoniare Gesù, l’unico Salvatore;
rendici servizievoli verso il prossimo,
accoglienti verso i bisognosi,
operatori di giustizia,
costruttori appassionati di un mondo più giusto;
intercedi per noi che operiamo nella storia certi che il disegno del Padre si compirà.
Aurora di un mondo nuovo, mostrati Madre della speranza e veglia su di noi!
Veglia sulla Chiesa in Europa: sia essa trasparente al Vangelo;
sia autentico luogo di comunione;
viva la sua missione di annunciare, celebrare e servire il Vangelo della speranza
per la pace e la gioia di tutti.
Regina della pace proteggi l’umanità del terzo millennio!
Veglia su tutti i cristiani: proseguano fiduciosi sulla via dell’unità,
quale fermento per la concordia del Continente.
Veglia sui giovani, speranza del futuro,
rispondano generosamente alla chiamata di Gesù.
Veglia sui responsabili delle nazioni: si impegnino a costruire una casa comune,
nella quale siano rispettati la dignità e i diritti di ciascuno.
Maria, donaci Gesù!
Fa’ che lo seguiamo e lo amiamo!
Lui è la speranza della Chiesa, dell’Europa e dell’umanità.
Lui vive con noi, in mezzo a noi, nella sua Chiesa.
Con Te diciamo « Vieni, Signore Gesù » (Ap 22, 20):
Che la speranza della gloria infusa da Lui nei nostri cuori porti frutti di giustizia e di pace!


recitandola assieme a mezzogiorno e chiedendo al sacerdote della nostra parrocchia come intenzione per la Messa la protezione dell’Italia e la nostra conversione.


Ricordo a ciascuno che la responsabilità del mondo passa anche attraverso ognuno di noi.
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martedì 22 novembre 2011

Cosa resta quando tutto crolla (Articoli 68)

L'intervento di Julian Carron al Teatro Capranica di Roma durante l’incontro «La crisi sfida per un cambiamento» lo scorso 17/11. All’incontro — introdotto da Roberto Fontolan, direttore del Centro internazionale di Comunione e Liberazione — hanno partecipato anche Giorgio Israel e Antonio Polito. E ci dice di un compito e di una responsabilità che abbiamo di fronte:

«E Dio vide che (…) era cosa buona (…) era cosa molto buona». Questa affermazione, ripetuta ben sei volte nel primo capitolo della Genesi, esprime la convinzione fondamentale del popolo d’Israele sulla realtà: è buona, anzi molto buona. Come può Israele avere una convinzione così certa della positività della realtà dopo che tutta la sua storia è stata attraversata da sofferenze, tribolazioni e travagli di ogni genere?
Questo atteggiamento sorprende ancora di più, se lo collochiamo nel contesto culturale dei popoli vicini. Infatti, l’esperienza del dolore aveva portato gli altri popoli a una ben diversa convinzione: che, cioè, la realtà non è tutta positiva. È quello che esprime il manicheismo: ci sono due principi, uno buono e uno cattivo, che si riverberano in una creazione buona e in una cattiva. Come mai questa visione manichea non ha preso il sopravvento anche in Israele? Soltanto a motivo della sua storia.
L’esperienza che il popolo d’Israele ha fatto di Dio, pur in mezzo a tutte le sue tribolazioni, è stata così positiva che non ha potuto che affermare la Sua bontà. Dio si è rivelato con tutta la sua potenza salvatrice. E da questa esperienza hanno concluso: Lui, il salvatore, è anche il creatore. C’è solo un unico principio buono all’origine di tutto. Dunque, la realtà è positiva. È stata la presenza di Dio in mezzo al Suo popolo che ha educato gli ebrei a guardare la realtà nella sua verità.
Ma quello che più colpisce è che questa positività della realtà il popolo d’Israele l’ha veramente compresa proprio nel momento della crisi. Con la perdita del tempio, della monarchia e della terra, andando in esilio, Israele è stato spogliato di tutto quanto identificava come il fondamento della sua fede. È Isaia che Dio manda in soccorso del suo popolo per aiutarlo a guardare bene la realtà che ha davanti: «Levate in alto i vostri occhi e guardate: chi ha creato tali cose? Non lo sai forse? Non lo hai udito? Dio eterno è il Signore, che ha creato i confini della terra» (Isaia, 40, 12s., 26-28).
Quando tutto crolla, c’è qualcosa che permane: la realtà e gli occhi educati per guardarla. Col volantino «La crisi sfida per un cambiamento», firmato da Comunione e Liberazione, vogliamo aiutarci a guardare la realtà a partire dalla nostra esperienza. Si tratta di un giudizio sulla situazione in cui siamo immersi, che rischia di far crollare l’Italia e l’intera Europa. Davanti a questo dato ciascuno è chiamato a prendere posizione. La chiave di volta è sintetizzata dalla frase: la realtà è positiva. 
Ma è vero che la realtà è positiva? Questa è la sfida che noi vogliamo lanciare a tutti, a noi per primi, perché siamo immersi in una situazione che ci offusca, per cui non riusciamo a guardare bene il reale. Con questo giudizio non offriamo un’interpretazione della crisi valida per i soli cattolici, come a dire: “per noi” la realtà è positiva, perché la compagnia, il nostro stare insieme, ci “convince” a pensare così, a consolarci così.
La nostra pretesa è che si tratti di un’evidenza che tutti possono riconoscere. Anche a questo livello ci viene in soccorso Giussani: «Una positività di fronte alla vita, alla realtà, non la induciamo dalla compagnia (sarebbe una magra consolazione), ma ci è dettata dalla natura; la compagnia ci rende più facile accettare questo, anche attraversando condizioni brutte, situazioni complesse» (Luigi Giussani, Si può [veramente?!] vivere così?, Milano, Bur, 2011, pp. 292-293).
La realtà può essere percepita come positiva perché è positiva. È ontologicamente positiva la realtà. Perché? La realtà è positiva perché c’è. Tutto ciò che esiste c’è perché il Mistero ha permesso che accadesse, provoca e mette in moto la persona, rappresenta un invito al cambiamento, un’occasione di un passo verso il proprio destino. 
Ogni circostanza è strada e strumento del nostro cammino: è segno. In quanto c’è, la realtà è provocazione, e quindi occasione di risveglio dell’io dal suo torpore. Perfino la crisi, perché essa urge con le sue domande.
«Una crisi — dice Hannah Arendt — ci costringe a tornare alle domande; esige da noi risposte nuove o vecchie, purché scaturite da un esame diretto; e si trasforma in una catastrofe solo quando noi cerchiamo di farvi fronte con giudizi preconcetti, ossia pregiudizi, aggravando così la crisi e per di più rinunciando a vivere quell’esperienza della realtà, a utilizzare quell’occasione per riflettere, che la crisi stessa costituisce» (Tra passato e futuro, Milano, Garzanti, 1991, p. 229).
Ma l’irriducibile positività di cui parliamo non si rivela meccanicamente, bensì solo a chi accetta la sfida della realtà, a chi prende sul serio le sue domande, a chi non retrocede davanti alle urgenze del vivere. 
Quante testimonianze ci sono di persone per le quali le difficoltà sono diventate occasioni di cambiamento! 
Ciò che è successo è stato misterioso tramite per una ripresa del proprio io e per una comprensione più profonda della natura della realtà, che si pensava già di conoscere. La realtà è positiva per il Mistero che la abita. Ma che cosa occorre per cogliere questa positività? Un uso della ragione secondo la sua vera natura di conoscenza del reale in tutti i suoi fattori. La ragione, infatti, può cogliere la realtà come “dato” vibrante di un’attività e di un’attrattiva, come provocazione, e quindi come invito.
Eppure, se ci guardiamo intorno, vediamo che purtroppo questo uso della ragione è molto raro, quasi introvabile. Se la ragione non coglie questo mistero che costituisce il cuore della realtà, l’uomo cede alla tentazione di intendere in modo sentimentale o moralistico l’affermazione: «La realtà è positiva», come se significasse che essa è desiderabile e gradita, piacevole. Come mai accade questo?
Per la nostra fragilità e per il condizionamento del contesto culturale e sociale, per il potere che ci circonda, quando s’imbatte in una realtà che mostra un volto negativo e contraddittorio, la ragione, che pure è originalmente aperta al reale, indietreggia, trema, si confonde. E la realtà, da segno che spalanca, diventa tomba in cui tutti, tante volte, soffochiamo.
Esattamente a questa situazione drammatica il Mistero, entrando nella storia, è venuto a portare il Suo contributo decisivo. Cristo è venuto al culmine della storia del popolo d’Israele proprio per questo: ridestare il nostro io perché possiamo affrontare qualsiasi sfida. Cristo non si è incarnato per risparmiarci il lavoro della nostra ragione, della nostra libertà, del nostro impegno, ma per renderlo possibile, perché è questo che ci fa diventare uomini, che ci fa vivere la vita come un’avventura appassionante anche in mezzo a tutte le difficoltà, anche e soprattutto in tempi di crisi, quando tutto diventa questione di vita o morte, per non perdere la testa e l’anima. Cristo è diventato nostro compagno, mettendoci nelle condizioni ottimali per guardare la realtà secondo la sua vera natura, e non per fare di noi dei “visionari”.
In questa situazione si capisce la rilevanza epocale della battaglia, portata avanti nell’indifferenza generale da Benedetto XVI, per la difesa della vera natura della ragione, per «allargare la ragione», per una «ragione aperta al linguaggio dell’essere», cioè per un io in grado di affrontare qualsiasi sfida. Proprio a questo livello Cristo dimostra la sua eccezionalità: restituendo l’uomo a se stesso. Perciò un uso vero e compiuto della ragione è una verifica della fede, è la documentazione potente e inconfondibile del rapporto riconosciuto e vissuto con Cristo contemporaneo a ciascuno di noi.
Il cristianesimo non si aggiunge dall’esterno, come una sovrastruttura, come un pietismo, alla vita dell’uomo, ma chiarisce, educa e salva la natura stessa dell’uomo, ferita ma non annullata dal peccato originale. Se davanti al contesto attuale non viviamo la realtà nella sua vera natura, vuol dire che la fede non è vissuta nella sua autenticità, non è fede cristiana. Allora la fede è inutile. Invece, paradossalmente, la crisi può rappresentare la possibilità di verificare la convenienza umana della fede, la sua ragionevolezza. 
Se noi accettiamo questo lavoro, potremo riempirci di una tale ricchezza di esperienza da poterla condividere con tutti, e scopriremo in che cosa consiste l’incidenza storica dei cristiani.
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domenica 20 novembre 2011

Domenica 34^ t.o. - Cristo Re (Angelus 51)

Africa, Benin, Cotonou, Stadio dell'Amicizia
Cari fratelli e sorelle!
Al termine di questa solenne celebrazione eucaristica, uniti da Cristo, ci rivolgiamo con fiducia verso sua Madre, per pregare l’Angelus. Dopo aver consegnato l’Esortazione apostolica Africae Munus, desidero affidare alla Vergine Maria, Nostra Signora d’Africa, la nuova tappa che si apre per la Chiesa in questo Continente, affinché ella accompagni il futuro di questa evangelizzazione dell’intera Africa e particolarmente quella di questa terra del Benin.
Maria ha accolto gioiosamente l’invito del Signore a diventare la Madre di Gesù. Che ella ci porti a rispondere alla missione che Dio ci affida oggi! 
Maria è questa donna della nostra terra che ha ricevuto il privilegio di dare alla luce il Salvatore del mondo. 
Chi meglio di Lei conosce il valore e la bellezza della vita umana? 
Che mai venga meno il nostro stupore davanti al dono della vita! 
Chi meglio di Lei conosce i nostri bisogni di uomini e donne ancora in pellegrinaggio sulla terra? 
Ai piedi della Croce, unita al suo Figlio crocifisso, Ella è la Madre della speranza. 
Questa speranza ci permette di assumere il quotidiano con la forza che dà la verità manifestata da Gesù.
Cari fratelli e sorelle dell’Africa, terra ospitale per la Santa Famiglia, continuate a coltivare i valori familiari cristiani. Mentre tante famiglie sono divise, esiliate, funestate da conflitti senza fine, siate gli artefici della riconciliazione e della speranza. Con Maria, la Vergine del Magnificat, possiate sempre rimanere nella gioia. Questa gioia sia al cuore delle vostre famiglie e dei vostri Paesi!
Con le parole dell’Angelus rivolgiamoci ora verso la nostra amata Madre. Affidiamole le intenzioni che portiamo nel cuore e preghiamola per l’Africa e per il mondo intero.
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venerdì 18 novembre 2011

Eppure una preghiera può essere più decisiva di tutti i piani anticrisi (Contributi 548)



Propongo questo testo di Pippo Corigliano (portavoce dell'Opus Dei) tratto dal numero 46 del settimanale Tempi perché lo considero molto valido. Credo sia da lanciare una campagna fortissima per la preghiera di fronte alla situazione attuale:

Qualcuno ha detto che, davanti alla situazione critica del nostro paese, occorre soprattutto pregare. 
E mi pare che abbia ragione. 
Mi ha sempre colpito il fatto che, quando Erode decise di mettere in carcere Pietro (Atti degli apostoli, capitolo 12), la reazione dei cristiani non fu quella di pensare: “Fra noi c’è la moglie di Cusa, procuratore di Erode, cerchiamo d’intavolare una trattativa per liberare Pietro”. 
Questo è quello che avrei fatto io. 
Invece si misero tutti a pregare e Pietro venne liberato miracolosamente.
Il nostro paese custodisce le reliquie di Pietro e Paolo, il corpo di san Francesco e di tanti santi. È una terra ricca di uomini e di talenti sorprendenti. 
Possiamo chiedere al Signore che ci mandi dei giusti ora che sembra che tutti cerchino soltanto il tornaconto personale. 
La crisi è mondiale ma avvertiamo, oggi come mai in questi anni, la vicinanza di persone che non riescono ad arrivare a fine mese. Persone a cui pesano le bollette della luce e del gas. 
Persone che cercano lavoro, persone che soffrono. 
Abbiamo discusso di come abbreviare la vita agli anziani e non riusciamo a far campare i giovani, abbiamo discusso se chiamare matrimonio l’unione fra omosessuali e lui e lei non riescono a sposarsi e fare i figli che sono una risorsa per il paese. 
Siamo andati un po’ fuori strada. 
Chiediamo al Signore che ci indichi la via, che ci faccia mettere al primo posto l’amicizia con Gesù e renda il nostro paese lieto e florido.
Mi sembra giusto il suggerimento di pregare.
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martedì 15 novembre 2011

Il governo dei monaci (Contributi 547)

Un articolo di Pigi Colognesi dal Sussidiario a riguardo dell'attuale crisi continentale:


Certamente lo scorso 9 novembre avevamo altro da pensare che non celebrare la Giornata mondiale della libertà, ricorrendo in quel giorno l’anniversario della caduta del muro di Berlino. Eppure la coincidenza dell’inizio della crisi di governo con la data della fine dell’impero sovietico ha qualcosa di evocativo. Si è parlato di «fine del berlusconismo» e lo si è connesso col tramonto di tutto il mondo occidentale, che scopre sempre più acutamente le sue debolezze, la perdita del primato planetario, la fragilità del suo modello esistenziale, la vacuità della sua proposta culturale. Così, dopo la fine - per fortuna non sanguinosa - dell’utopia marxista nella sua versione sovietica, stiamo assistendo al declino della versione capitalistica della modernità, caratterizzata da cieca fiducia nel progresso, da stili di vita gaudenti, dall’abbandono della tradizione, da quello che è stato chiamato «nichilismo gaio».
Qual è il compito dei cristiani in un simile frangente? La nostra lunga storia ha già presentato situazioni analoghe, e forse quella che più chiaramente ha mostrato i fattori in gioco è la crisi dell’impero romano. Cos’hanno fatto, allora, i cristiani? Rispondo con le parole di Alasdair MacIntyre: «Un punto di svolta decisivo in quella storia più antica si ebbe quando uomini e donne di buona volontà si distolsero dal compito di puntellare l’imperium romano e smisero di identificare la continuazione della civiltà e della comunità morale con la conservazione di tale imperium. Il compito che invece si prefissero (spesso senza rendersi conto pienamente di ciò che stavano facendo) fu la costruzione di nuove forme di comunità entro cui la vita morale potesse essere sostenuta, in modo che sia la civiltà sia la morale avessero la possibilità di sopravvivere all’epoca incipiente di barbarie e di oscurità. Ciò che conta, in questa fase, è la costruzione di forme locali di comunità al cui interno la civiltà e la vita morale e intellettuale possano essere conservate attraverso i nuovi secoli oscuri che già incombono su di noi. E se la tradizione delle virtù è stata in grado di sopravvivere agli orrori dell’ultima età oscura, non siamo del tutto privi di fondamenti per la speranza. Questa volta però i barbari non aspettano al di là delle frontiere: ci hanno già governato per parecchio tempo. Ed è la nostra inconsapevolezza di questo fatto a costituire parte delle nostre difficoltà. Stiamo aspettando: non Godot, ma un altro San Benedetto, senza dubbio molto diverso».
Il compito dunque è che nel buio della crisi continui a splendere una luce, una luce pur piccola come quella di un accendino, ma irriducibilmente diversa dall’oscurità. Non la luce di una teoria più sgamata o di un’analisi più raffinata; la luce di una diversità umana già in atto, già sperimentata. 
Esattamente come quella che brillava nei nascenti monasteri benedettini, dove uomini normali mostrarono possibile la stabilità in un mondo travolto da irrefrenabili migrazioni, la fraternità in mezzo alla violenza, la costruttività alternativa al crollo di tutto. 
E poco importa se i professionisti della politica diranno che è un’illusione e gli intellettuali che è un’ingenuità. 
Resta il fatto: quei monaci hanno costruito, senza neppure pensarci, una civiltà.
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lunedì 14 novembre 2011

Salvator mundi (Post 130)

E’ sotto gli occhi di tutti, anche se non tutti se ne sono resi conto, che quello che è avvenuto in questi giorni in Italia è un colpo di stato in piena regola. Non è mia intenzione difendere ad oltranza il capo di governo uscente, che ha senza dubbio alcuno commesso molti e gravi errori, ma contro il quale si è scatenata una campagna accusatoria che non ha precedenti nella storia recente del nostro Paese. Non condivido in nulla il modo con cui si svolti i fatti e il voler dare al signor Mario Monti il ruolo di salvatore della patria. Penso che non solo non lo sarà ma che potrà solo peggiorare le cose a danno dei ceti più indifesi.  Primo perché nessun uomo da solo può farlo e secondo perché, anche se per pura ipotesi non esistesse il primo punto, non sarebbe lui la persona più indicata a farlo. Non lo sarebbe perché appartiene allo stesso gruppo di persone che ha contribuito a generare la crisi in cui ci troviamo da diversi anni e perché ha dimostrato di non averne le doti (è famosa la sua profezia “il paese che trarrà i migliori vantaggi dall’euro sarà la Grecia). Ora ci sarà il via libera a tassare le proprietà dei più deboli e a leggi contrarie alla vita.
Ma non è tanto questo quanto volevo dire ma un’altra cosa. Che ci sia non solo in Italia, ma anche in Europa e nel mondo un preoccupante calo di valori è cosa evidente. Ci vogliono far credere che tutto dipenda dall’economia e che il segreto della felicità e della propria auto realizzazione stia nel saldo del proprio conto corrente. Ma sappiamo bene tutti che non è così. La propria fortuna e la propria realizzazione umana non dipende dalle ricchezze di cui si può disporre, anche se queste ci possono illudere in tal senso.
Ciò che ci può salvare e anzi ci ha già salvato è la persona di Cristo. 
Il resto, tutto il resto, partiti, ideologie o tesi filosofiche, sono solo transitorie illusioni e temporanei strumenti.
Circa 1500 anni fa ciò che ha permesso all’Europa di risollevarsi dal crollo dell’impero romano è stato il fiorire di una cultura e di un popolo cristiano che ha saputo rigenerare una nuova civiltà dalle ceneri di quella appena scomparsa. 
Ciò che può oggi, adesso, qui ed ora far alzare il capo dal mare di fango in cui a volte anche non metaforicamente ci inabissiamo è il guardare a Cristo, il tornare a Lui. Non è un nuovo capo di governo (per altro non votato da nessuno e legato solo a lobby economico/massoniche) che può cambiare le sorti dell’Italia e di ciascuno di noi ma la ripresa di coscienza e di consapevolezza che solo e soltanto con Cristo siamo uomini veri e liberi. Il cambiamento della società non può venire calato dall’alto ma da ciascuno di noi. Solo uomini nuovi, convertiti dall’incontro sincero e leale fra la loro umanità e Cristo, possono instaurare nella società semi reali di novità.
Siamo chiamati, in questa fase importantissima della storia del pianeta, a ritornare con passo umile e deciso a Cristo e costruire luoghi di umanità redenta. Solo modificando e convertendo la propria umanità a Cristo si può far fermentare nella società una concreta novità di vita.
Altrimenti si cambia solo padrone e si resta spettatori di una propria vita il cui copione è scritto da altri e mai a nostro favore.
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domenica 13 novembre 2011

Domenica 33^ t.o. (Angelus 50)

Cari fratelli e sorelle!
La Parola di Dio di questa domenica – la penultima dell’anno liturgico – ci ammonisce circa la provvisorietà dell’esistenza terrena e ci invita a viverla come un pellegrinaggio, tenendo lo sguardo rivolto alla meta, a quel Dio che ci ha creato e, poiché ci ha fatto per sé (cfr S. Agostino, Conf. 1,1), è il nostro destino ultimo e il senso del nostro vivere. Passaggio obbligato per giungere a tale realtà definitiva è la morte, seguita dal giudizio finale. L’apostolo Paolo ricorda che "il giorno del Signore verrà come un ladro di notte" (1 Ts 5,2), cioè senza preavviso. La consapevolezza del ritorno glorioso del Signore Gesù ci sprona a vivere in un atteggiamento di vigilanza, attendendo la sua manifestazione nella costante memoria della sua prima venuta.
Nella celebre parabola dei talenti – riportata dall’evangelista Matteo (cfr 25,14-30) – Gesù racconta di tre servi ai quali il padrone, al momento di partire per un lungo viaggio, affida le proprie sostanze. Due di loro si comportano bene, perché fanno fruttare del doppio i beni ricevuti. Il terzo, invece, nasconde il denaro ricevuto in una buca. Tornato a casa, il padrone chiede conto ai servitori di quanto aveva loro affidato e, mentre si compiace dei primi due, rimane deluso del terzo. Quel servo, infatti, che ha tenuto nascosto il talento senza valorizzarlo, ha fatto male i suoi conti: si è comportato come se il suo padrone non dovesse più tornare, come se non ci fosse un giorno in cui gli avrebbe chiesto conto del suo operato. Con questa parabola, Gesù vuole insegnare ai discepoli ad usare bene i suoi doni: Dio chiama ogni uomo alla vita e gli consegna dei talenti, affidandogli nel contempo una missione da compiere. Sarebbe da stolti pensare che questi doni siano dovuti, così come rinunciare ad impiegarli sarebbe un venir meno allo scopo della propria esistenza. Commentando questa pagina evangelica, san Gregorio Magno nota che a nessuno il Signore fa mancare il dono della sua carità, dell’amore. Egli scrive: "È perciò necessario, fratelli miei, che poniate ogni cura nella custodia della carità, in ogni azione che dovete compiere" . E dopo aver precisato che la vera carità consiste nell’amare tanto gli amici quanto i nemici, aggiunge: "se uno manca di questa virtù, perde ogni bene che ha, è privato del talento ricevuto e viene buttato fuori, nelle tenebre" .
Cari fratelli, accogliamo l’invito alla vigilanza, a cui più volte ci richiamano le Scritture! Essa è l’atteggiamento di chi sa che il Signore ritornerà e vorrà vedere in noi i frutti del suo amore. La carità è il bene fondamentale che nessuno può mancare di mettere a frutto e senza il quale ogni altro dono è vano (cfr 1 Cor 13,3). Se Gesù ci ha amato al punto da dare la sua vita per noi (cfr 1 Gv 3,16), come potremmo non amare Dio con tutto noi stessi e amarci di vero cuore gli uni gli altri? (cfr 1 Gv 4,11) Solo praticando la carità, anche noi potremo prendere parte alla gioia del nostro Signore. La Vergine Maria ci sia maestra di operosa e gioiosa vigilanza nel cammino verso l’incontro con Dio.
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giovedì 10 novembre 2011

Ricominciare dall’abc (Contributi 546)

Vi propongo la testimonianza di Don Giovanni Musazzi, dal Portogallo, tratta dal sito della Fraternità San Carlo:

Ad Alverca tante persone vengono a cercarci, soprattutto durante le messe del fine settimana. A quella centrale della domenica partecipano circa 600 persone; nella maggior parte dei casi sono le famiglie dei bambini del catechismo. Molti avevano lasciato la vita cristiana anni fa, o partecipavano saltuariamente alle celebrazioni. 
Ma attraverso i figli, sono tornate. 
E a poco a poco hanno cominciato ad avvertire la messa come quel luogo in cui l’ideale diventa concreto. Concreto perché vicino, perché parla della vita, delle decisioni da prendere, dei problemi di ogni giorno. Un luogo che guarda tutto alla luce della compagnia che Cristo ci fa, attraverso le persone vicine: per i loro bambini è il catechista, per loro siamo noi preti e le altre famiglie.
C’è di più: molte famiglie non si limitano a partecipare, ma sono attratte dalla nostra esperienza, dal nostro modo di vivere, di pregare e di lavorare insieme. Cercando un rapporto personale, molti di loro si aprono. Superata l’impasse iniziale, comprendono che la nostra forma di vita può essere di aiuto alla loro. Quando questo accade, è un incontro, nel senso in cui Giussani ce lo ha insegnato.
L’aiuto che i genitori cercano è anzitutto nell’educazione dei figli. Non tanto perché possono “scaricarli” qui in parrocchia, quanto perché possiamo trovare insieme le risposte alle sfide che il nostro tempo pone. Pensiamo a Internet, al cellulare, alla televisione. Molti genitori, ad esempio, sono spaventati dal fatto che per i figli, da quando Facebook ha preso piede, la parola «amicizia» ha perso valore. Non sanno come condurre i propri figli a riscoprire il senso autentico dell’amicizia e ci chiedono aiuto.
In secondo luogo, le famiglie si interrogano su che cosa significhi accogliere l’altro, continuare ad amare il coniuge, accettare i figli, anche se sono sempre diversi da quello che ci si aspetta.
L’aiuto che cerchiamo di dare consiste nell’indicare un ideale reale e possibile, che trova il suo alimento quotidiano nella preghiera in famiglia, tutti assieme. 
Il luogo “familiare” in cui l’ideale diventa concreto è la preghiera. 
Spesso insisto con le famiglie sulla necessità di tornare a pregare assieme. Alcuni ci provano, ma poi si lamentano che dopo un paio di tentativi di recitare il rosario in casa, tutto finisce. Consiglio loro di ricominciare dall’abc: la sera, quando la famiglia è riunita, dire un’Ave Maria davanti a una immagine della Madonna. Alla famiglia che riesce ad essere fedele a questo momento, suggerisco di aumentare il tempo della preghiera, e che ogni membro possa esprimere a voce alta le proprie intenzioni.
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mercoledì 9 novembre 2011

Preghiera per l'Italia (Interventi 108)

Un blog amico ha riproposto la preghiera che il beato Giovanni Paolo II ha scritto nel 1994. Ritengo sia molto utile ripeterla oggi che ci troviamo a vivere una situazione ancora più dura e complessa (anche per i problemi non sono più solo nazionali ma planetari..) Invito tutti a recitarla quotidianamente almeno fino a fine anno chiedendo la conversione del proprio e dell'altrui cuore:

O Dio, nostro Padre, ti lodiamo e ringraziamo.
Tu che ami ogni uomo e guidi tutti i popoli
accompagna i passi della nostra nazione,
spesso difficili ma colmi di speranza.
Fa’ che vediamo i segni della tua presenza
e sperimentiamo la forza del tuo amore, che non viene mai meno.
Signore Gesù, Figlio di Dio e Salvatore del mondo, fatto uomo nel seno della Vergine Maria,
ti confessiamo la nostra fede.
Il tuo Vangelo sia luce e vigore per le nostre scelte personali e sociali.
La tua legge d’amore conduca la nostra comunità civile a giustizia e solidarietà, a riconciliazione e pace.
Spirito Santo, amore del Padre e del figlio con fiducia ti invochiamo.
Tu che sei maestro interiore svela a noi i pensieri e le vie di Dio.
Donaci di guardare le vicende umane con occhi puri e penetranti,
di conservare l’eredità di santità e civiltà propria del nostro popolo,
di convertirci nella mente e nel cuore per rinnovare la nostra società.
Gloria a te, o Padre, che operi tutto in tutti.
Gloria a te, o Figlio, che per amore ti sei fatto nostro servo.
Gloria a te, o Spirito Santo, che semini i tuoi doni nei nostri cuori.
Gloria a te, o Santa Trinità, che vivi e regni nei secoli dei secoli.
Amen.
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La cosa più saggia (Post 129)

Un interessante articolo di Antonio Socci ci parla del difficilissimo momento politico-economico (e non solo) e propone di indire una giornata di preghiera per l'Italia. Tutto l'articolo è interessante (come spesso capita per ciò che scrive il giornalista toscano) e mi permetto di riportarne un brano:
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Quindici anni fa, nel 1996, quando l’Italia attraversò un’altra crisi – ma molto meno grave di quella attuale – don Giussani lanciò, come iniziativa pubblica, proprio un gesto di preghiera alla Madonna di Loreto e ai Santi Patroni per la salvezza del nostro Paese.


Si spiegò con queste parole in un’intervista alla Stampa:
la situazione è grave per lo smarrimento totale di un punto di riferimento naturale oggettivo per la coscienza del popolo, per cui il popolo stesso venga spinto a ricercare le cause reali del malessere e a salvarsi così dagli idoli. Questo smarrimento comporta una inevitabile, se non progettata, distruzione dello stato di benessere, che risulta così totalmente minato nella tranquillità del suo farsi. Perché riprendere, bisogna pur riprendere!”.
Sembrano parole pronunciate oggi. Nei grandi cristiani il realismo fa a braccetto con il totale affidamento a Dio (non con le chiacchiere sociologiche).
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Di fronte ad un problema, piccolo, grande, gigantesco che sia, la prima tentazione è l'analisi dello stesso, il cercare un colpevole (possibilmente mai noi stessi) della situazione di difficoltà che ci troviamo di fronte. Gli esperti non si risparmiamo nel dare spiegazione ottenendo quasi sempre di rendere la cosa ancora più incomprensibile. 
Ma l'esistenza non è una cosa complicata da dare in gestione ad esperti estranei a noi. La vita è una cosa semplice e meravigliosa che ci è stata donata da Dio e quindi la cosa più saggia, giusta e ragionevole e tornare ad affidarci a Dio. 
Quel Dio che si è fatto compagno di strada di ognuno di noi assumendo un corpo e un volto ben precisi, quelli del figlio del falegname di Nazareth e di Maria.
Personalmente penso che la prima (se non l'unica) cosa da fare sia pregare incessantemente e convertire il nostro cuore (cosa che la Madonna sta ripetendo da 30 anni nei messaggi di Medjugorje, per chi ci crede, o che comunque ha ripetuto in ogni apparizione ovunque avvenuta).
Le analisi non hanno mai cambiato l'uomo (al massimo hanno cambiato il suo modo di sbagliare o di peccare), ma dalla clava alla bomba atomica hanno lasciato invariata la sua tendenza al male (per i credenti si chiama "peccato originale"). 
La preghiera si.
Ha convertito uomini e nazioni, ha fatto cadere governi che sembravano invincibili, ha evitato immani catastrofi...
Invito quindi tutti a pregare per la nostra Nazione, il nostro continente, perché sia guidato pienamente e totalmente da Maria (come la bandiera europea ricorda), perché i suoi governanti siano ispirati nel loro agire dal bene del popolo e non da logiche economiche o di partito, perché ogni uomo, donna, bambino possa aprire il proprio cuore, la propria mente, le proprie braccia a Dio e farsi da Lui abbracciare, cambiare e salvare. 
Prima ancora che un nuovo governo o nuove elezioni, servono uomini nuovi che formando un popolo nuovo sappiano affermare in modo sempre più forte e convinto che solo Gesù può salvare ognuno. Solo guardando la realtà con gli occhi di Dio e con la semplice umiltà di Maria che a Lui si affida si può uscire da questa e da ogni crisi.
Differentemente qualunque soluzione si possa trovare è solo la genesi di un nuovo problema.
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lunedì 7 novembre 2011

La bella storia di Giampietro Steccato (Contributi 545)

Leggo da un articolo de La Bussola la storia di Giampietro Steccato che vivendo la sua non facile vita ha saputo testimoniare coraggiosamente che la vita è un valore sempre e comunque, un dono che val la pena vivere in ogni circostanza. Anche se durissima....

Nomen omen. A volte nel nome è per davvero inciso il nostro destino. Giampietro Steccato, morto il 30 ottobre scorso a 62 anni, era immobilizzato, appunto “steccato” nel suo stesso corpo dalla “sindrome del lucchetto”, conosciuta anche come sindrome “locked in”.
Quattordici anni in cui pian piano il suo fisico diventava di marmo, come una statua. Tanto che negli ultimi anni riusciva a muovere solo una palpebra e un angolo della bocca. Dal 2005 anche la vista lo abbandonò, ma lui invece non abbandonò mai la voglia di vivere e di comunicare. La moglie compitava le singole lettere dell’alfabeto e lui con un cenno della palpebra indicava quale consonante o vocale gli serviva per andare a completare la parola e poi la frase che aveva in animo di trasmettere agli altri. Un lento esercizio di grammatica dove ogni parola era veramente scritta e scelta con il cuore, cesellata con fatica e attenzione. Un dialogo tra sposi intessuto quasi nel silenzio.
E dunque il destino scelse per lui una vita congelata nel suo stesso corpo e gli assegnò il nome di Steccato, ma lui lottò contro questa sua condizione e si battezzò Capitan Uncino. E scelse questo soprannome forse proprio perché nella disabilità di questo personaggio è racchiuso il suo fascino, il suo punto di forza.
Nel marzo del 2009 vola a Roma per incontrare il Papa. L’Unione Atei Agnostici e Razionalisti (UAAR) dissente vibratamente e in una nota fa sapere che “per nulla giustificabile è che il viaggio in Vaticano gliel’abbia regalato l’Aeronautica Militare italiana, che per dar corso all’operazione, rende noto l’ANSA, ha messo a disposizione un C-27J della 46. Brigata Aerea di Pisa”. Già, meglio ha fatto Welby che decidendo di morire ha fatto risparmiare a noi tutti contribuenti i soldi per le sue cure.
Giampiero tramite la moglie consegna al Pontefice una lettera in cui senza mezzi termini afferma che “ho voglia di vivere, sono entusiasta e curioso, amo la natura e il mondo in cui ho la fortuna e il privilegio di esistere”. Il termine “privilegio” alle nostre orecchie di persone cosiddette normodotate appare ancor più deflagrante se teniamo conto che il livello di gravità della sindrome da cui era affetto Giampietro ha colpito ad oggi in Italia solo 5 persone. Un privilegiato alla rovescia ci verrebbe da commentare. Eppure per Capitan Uncino le cose non stanno così e non c’è spazio per autocommiserazioni: “Sono cosciente che la mia fortuna è frutto della volontà del Signore e ringrazio infinite volte per quanto mi viene concesso”. La vera prigione non era il suo corpo, ma il giudizio di chi lo considerava una persona di serie B: “mi sento incastrato nella parola disabile”, una volta ebbe a dire.
Altre sono le disabilità da temere. Sulla rivista “Vita” così scriveva facendo comprendere che il vero handicap non è la malattia ma la solitudine: “Ho avuto una grossa fortuna: la mia famiglia mi è sempre stata vicina, ho guadagnato un bel po' di amici che danno qualità alle mie giornate, mi sono trovato a sentirmi mentalmente e moralmente uguale a quando stavo bene”.
L’attore Alessandro Bergonzoni lo portava in giro nelle università a dare testimonianza. Di quell’esperienza Giampietro era entusiasta: “Sono certo di poter portare ai ragazzi la mia concretezza, la mia sensazione di stare bene al mondo, la prova che sono veramente contento di essere vivo. Dico questo perché anche per me era difficile immaginare di poter stare così da malato quando ero forte e sano (e anche belloccio).” 
Muoveva solo una palpebra ma è stato capace di muovere le emozioni e i sentimenti di molti giovani.
Forse questo dava fastidio all’UAAR: mostrare che un disabile gravissimo può essere felice di vivere manda in frantumi il teorema che di fronte alla malattia fortemente invalidante l’unica scappatoia è l’eutanasia. Meglio occultare storie come quella di Giampietro. Altrimenti sarebbe come provare con i fatti che la vita è sempre degna di essere vissuta e si comprenderebbe in un attimo che la bellezza di un’esistenza non si può spegnere mai del tutto, quella bellezza che risplende nei corpi piagati dalla malattia e dalla sofferenza ancor più intensamente, come un fiore in un cumulo di macerie appare ancora più bello. Ed anche per questo che mai ci fecero vedere Eluana durante la sua malattia, perché ci sarebbe parsa una bella addormentata e non una donna in perenne agonia.
In un video di qualche anno fa Giampietro faceva sapere, tramite speaker, che come disabile grave gli avevano proposto di essere ricoverato in un centro specializzato togliendolo così da casa. A questo proposito in modo provocatorio e ironico si domandava: “Ma gli abili per sollevarsi o svagarsi vanno negli ospedali o nei cimiteri?”. La battuta sui cimiteri era rivolta a coloro i quali pensano che una vita così sia in realtà un’esistenza morta in sé (vi ricordate Beppino Englaro che sosteneva che sua figlia dopo l’incidente era morta?), persone viventi ma così malconce che sono buone solo per la tomba.
“Sento spesso parlare di eutanasia assistita, – così continuava nel video – morte dignitosa. Mi viene spontanea una domanda: come mai si parla di questa nuova legge [disegno di legge in esame attualmente in Parlamento N.d.a] quando non vengono rispettate quelle già esistenti? Come mai dove c’è vita c’è morte ma la morte fa più effetto della vita?
Intendo dire: Welby nella sua rispettosa scelta è stato reso pubblico in tutti i modi per tanto tempo, entrando in quasi tutte le case degli italiani per stimolare lo Stato a pensare e a legiferare verso il rispetto della consapevole volontà di chi non ce la fa più a soffrire e a vivere una non vita. Io per primo mi sono trovato nella condizione di comprendere Pier Giorgio perché so cosa significa avere la malattia come immancabile compagna di viaggio. Tuttavia mi sono sentito in un certo senso obbligato a rendere pubblica la mia volontà alla vita. Non in contraddizione a chi chiede l’eutanasia, ma per far vivere il diritto ad un’esistenza dignitosa e rispettosa di chi pur essendo malato vuole continuare a vivere.
Dopo il furore iniziale la battaglia è finita come tutti tranne me si aspettavano: silenzio e mille bugie da parte delle istituzioni…. E’ stato più facile da parte dello Stato ascoltare chi chiede una morte senza spese che dare una risposta a chi chiede un aiuto che comporta un maggior impegno.
Concludo queste poche righe con un invito a tutti quelli che sono in difficoltà a non cadere nella guerra dei poveri che in troppi fomentano: chi vuole l’eutanasia contro chi non la vuole, chi ha l’assistenza contro chi non ce l’ha. Uniamoci, sani e malati, combattiamo per un’assistenza sanitaria e non che sia qualificata, sufficiente a far vivere con dignità noi e a non far distruggere le nostre famiglie. In modo tale da consentirci la tranquillità e la certezza che non saremo mai lasciati soli o parcheggiati in istituto.
La malattia e la voglia di vivere hanno dei punti in comune. Entrambe ci arrivano senza che noi possiam far nulla. Sono spesso invincibili e soprattutto non fanno distinzioni. Non hanno nazionalità, né sesso, né età, né un colore politico. Finiamo di giocare e perdere tempo. La nostra serenità è urgente”.
Capitan Uncino, lo abbiamo detto, era immobile come una statua di marmo. 
Ma la sua sete di vita ha scolpito il marmo e ha reso questa statua un capolavoro.
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