Benvenuti

Questo blog è uno spazio per aiutarsi a riprendere a pensare da cattolici, alla luce della vera fede e della sana dottrina, cosa che la società moderna sta completamente trascurando se non perseguitando. Un aiuto (in primo luogo a me stesso) a restare sulla retta via e a continuare a camminare verso Gesù Cristo, Via Verità e Vita.
Ogni suggerimento e/o contributo in questa direzione è ben gradito.
Affido allo Spirito Santo di Dio, a Maria Santissima, al Sacro Cuore di Gesù e a San Michele Arcangelo questo lavoro di testimonianza e apostolato.
Un caro saluto a tutti e un sentito ringraziamento a chi vorrà contribuire in qualunque modo a questa piccola opera.

S. Giovanni Paolo II

Ci alzeremo in piedi ogni volta che la vita umana viene minacciata... Ci alzeremo ogni volta che la sacralità della vita viene attaccata prima della nascita. Ci alzeremo e proclameremo che nessuno ha l'autorità di distruggere la vita non nata...Ci alzeremo quando un bambino viene visto come un peso o solo come un mezzo per soddisfare un'emozione e grideremo che ogni bambino è un dono unico e irripetibile di Dio... Ci alzeremo quando l'istituzione del matrimonio viene abbandonata all'egoismo umano... e affermeremo l'indissolubilità del vincolo coniugale... Ci alzeremo quando il valore della famiglia è minacciato dalle pressioni sociali ed economiche...e riaffermeremo che la famiglia è necessaria non solo per il bene dell'individuo ma anche per quello della società... Ci alzeremo quando la libertà viene usata per dominare i deboli, per dissipare le risorse naturali e l'energia e per negare i bisogni fondamentali alle persone e reclameremo giustizia... Ci alzeremo quando i deboli, gli anziani e i morenti vengono abbandonati in solitudine e proclameremo che essi sono degni di amore, di cura e di rispetto.

sabato 31 luglio 2010

Zichichi: grazie alla scienza mi sono convinto di Dio (Articoli 19)

Ecco un articolo di UCCR

Uno dei fisici italiani più importanti si chiama Antonino Zichichi. Conosciuto in ambito internazionale, è stato presidente dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare per 5 anni. Attualmente è docente emerito di Fisica superiore all’Università di Bologna. Ha spesso sottolineato la sua assoluta certezza nell’assenza di contrasti tra la scienza e la fede. Due libri sono assolutamente da leggere: Perché io credo in Colui che ha fatto il mondo (Il Saggiatore 1999) e Tra fede e scienza. Da Giovanni Paolo II a Benedetto XVI (Il saggiatore 2005).

Intervistato ieri da Il Sussidiario, ha dimostrato ancora una volta la sua infinita passione per la scienza e ha trattato l’argomento dello spazio-tempo. Infine ha dichiarato: «Tutti i giganti della scienza sono sempre stati credenti [vedi il nostro elenco].
La fisica studia la componente immanente della nostra esistenza, mentre la fede riguarda l’aspetto trascendente. L’ateismo dice che quest’ultimo non esiste, ma non lo sa dimostrare.
Che la scienza non possa essere in contrasto con la fede, lo rivela il modo in cui è nata la fisica. Cioè dal pensiero di Galileo Galilei, che ha lasciato scritto: «Colui che ha fatto il mondo è più intelligente di tutti, filosofi, matematici e fisici messi insieme. E l’unico modo per sapere come ha fatto a crearlo è porgli delle domande».
Ma come mai oggi noi non riusciamo a vedere Dio? «Perché Dio non esiste, dicono gli atei. Ma la sfera trascendente non può obbedire alle stesse leggi della materia. Quando tra cinque miliardi di anni il sole si spegnerà, il trascendente sarà ancora tutto lì e rimarrà invariato, perché si trova al di fuori del tempo». Ma questo è un argomento scientifico? Assolutamente si. Il celebre fisico continua: «Io posso affermare tutto questo proprio grazie alla scienza. Se non fosse per la fisica, io non riuscirei a convincere il mio amico ateo che esiste una logica che regge il mondo. Se c’è qualcosa che può mettere in crisi l’ateismo è l’esistenza di questa logica. Chi la nega, contraddice la scienza.
Se non esistesse questa logica io sarei disoccupato. E invece no, sono occupatissimo, nel tentativo di comprendere le conseguenze di questa logica.
Mentre se fossimo figli del caos allora avrebbero ragione i miei amici atei. Il messaggio della scienza è che c’è una logica, e se c’è allora ci deve essere anche un Autore. Coloro che negano l’esistenza dell’Autore sono in contraddizione logica. L’ateismo quindi è atto di fede nel nulla, non è un atto di ragione».
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venerdì 30 luglio 2010

Suor Meena, violentata, “testimone di Luce e Verità per la Chiesa indiana” (Contributi 347)

KANDHAMAL, giovedì, 29 luglio 2010 (ZENIT.org)
Suor Meena, la religiosa picchiata e violentata durante la persecuzione anticristiana scoppiata nello Stato indiano dell'Orissa nell'estate 2008, è “testimone di Luce e Verità per la Chiesa indiana”.

Monsignor John Barwa, Vescovo di Rourkela e zio della suora, l'ha accompagnata e sostenuta nei giorni del processo contro gli estremisti indù che l'hanno violentata e ha rilasciato queste dichiarazioni ad AsiaNews.
Suor Meena, dell'ordine religioso delle Servitrici, svolgeva la sua missione nel centro pastorale Divyajyoti a K Nuagaon, nel distretto di Kandhamal, insieme a un sacerdote, padre Thomas Chellan. La religiosa ha pronunciato i voti perpetui nell'aprile scorso.
Il 25 agosto 2008 è stata presa insieme al sacerdote con cui lavorava nel centro e picchiata, spogliata e fatta andare in giro per il villaggio. A un certo punto i fondamentalisti volevano bruciarla viva insieme al presbitero, ma poi l’hanno violentata. Solo in tarda serata, mentre continuavano ad essere oltraggiati e malmenati, la polizia ha soccorso lei e padre Chellan.
Il caso è giunto davanti al giudice Bira Kishore Mishra. La comunità cristiana accusa le autorità locali di connivenza con gli estremisti, e il processo di suor Meena è visto come l'opportunità di esprimere il desiderio di giustizia della popolazione.
La religiosa, ha spiegato il Vescovo, “cresce e si rafforza quotidianamente, nutrita dall’adorazione eucaristica, dalla Messa e dal rosario. Certo, ci sono dei rari momenti in cui cede a un senso di imprigionamento, stanchezza e dolore; ma grazie alla preghiera di tutta la Chiesa tribale, diventa forte e supera queste crisi”.
“È cinque volte più coraggiosa e mi incoraggia nella mia missione episcopale. Suor Meena sta portando avanti gli studi e la sua carriera accademica, frequenta normalmente il college (dove nessuno sa chi sia) e viaggia normalmente tramite il trasporto pubblico”, ha aggiunto.
Proprio questo crea delle preoccupazioni per la sua sicurezza: “Per me, per la nostra gente e per la Chiesa dell’Orissa, lei è la testimonianza della vittoria della Luce sull’oscurità”.
Il presule ha quindi osservato che “tutti coloro che si ammantano di buio non vogliono che la luce e la verità possano vincere”. “Ecco perché sono preoccupato, ed ecco perché dobbiamo difenderla, senza svelare dove si trovi, in modo da preservare la sua luce”, ha detto.
“Dio ha scelto suor Meena per essere Suo strumento”.
Lo zio le ha chiesto direttamente “se si sentisse spaventata o arrabbiata”, ma lei ha risposto di no. “Cerca giustizia non soltanto per sé, ma anche per il nostro popolo; ma non è arrabbiata”.
“Per quanto riguarda l’identificazione dei colpevoli, mi ha detto che è Dio che la illumina e che lo Spirito Santo le dà la forza per affrontare questo momento – ha concluso il Vescovo –. L’ultima volta che ci siamo trovati insieme prima di un momento simile, insieme alla sua Superiora, abbiamo celebrato un’Eucarestia meravigliosa: oltre tre ore in preghiera con la Parola di Dio e l’eucarestia guaritrice. Un dono di grazia e pace per tutti noi”.
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Ho la grazia di essere miserabile (Contributi 346)

Una bellissima intervista a Padre Aldo Trento da leggere assolutamente:

L’intervista di Marina Corradi a padre Aldo Trento è contenuta nel libro di quest’ultimo I dieci comandamenti, primo titolo della collana Lindau I libri di Tempi. Il volume sarà in vendita, al prezzo lancio di 10 euro anziché 12, presso lo stand di Tempi al Meeting per l’amicizia fra i popoli (22-28 agosto, Fiera di Rimini, padiglione C3).
Aprile 2010. Padre Aldo Trento è di passaggio a Milano. Lo incontro a casa di un suo amico a Concorezzo. Non gli avevo mai parlato a tu per tu. Mi colpiscono la faccia semplice, da contadino del bellunese, e gli occhi chiarissimi, con qualcosa di infantile. Queste sono alcune delle domande che gli ho rivolto e le sue risposte.


Quello che non capisco è come fai a parlare di Cristo come di una Presenza assolutamente concreta. È una cosa che mi meraviglia. Io, Gesù Cristo non lo vedo. Lo cerco, lo inseguo, ma non è una Presenza come lo puoi essere tu ora davanti a me. Capisco bene il Barabba di Lägerkvist, che, dopo avere girato a lungo attorno al Golgota, dice sconfitto: «Ho desiderato di credere». Per me, pure nel desiderio, Gesù Cristo resta spesso un fantasma.
Anche a me accadeva quello che tu dici, una volta. Ciò che ha dato concretezza a Cristo è stato il modo in cui mi ha guardato Giussani, il modo in cui mi ha tenuto con sé e accompagnato. Attraverso lo sguardo di don Giussani, Cristo è diventato una Presenza concreta accanto a me.
D’accordo, tu hai conosciuto Giussani, ma d’altra parte non a tutti quelli che hanno incontrato Giussani ne è venuta una uguale certezza di fede. Mentre tanti uomini non incontrano né Giussani né alcun testimone credibile di Cristo. Di loro, che ne è?
Credo che chi conosce un cristiano autentico e prosegue tranquillamente per il suo cammino sia un borghese, che ha in fondo sulla vita una domanda modesta. Quanto a quelli che non incontrano nessuno, penso che operi una sorta di selezione naturale in base all’intensità della domanda di senso. Se la domanda è davvero forte, un uomo cerca e cerca: finché non trova.
E questi ultimi sono dei prediletti? Esistono, i prediletti?
Che esistano, lo testimonia la Scrittura e sono quelli che Dio castiga di più, perché non smettano di cercarlo.
Hai detto due anni fa al Meeting: la depressione è una grazia. La depressione, come tu sai molto bene, è anche una profonda sofferenza. Grazia, dunque, perché?
Per me è stata ciò che mi ha spinto a cercare oltre i miei limiti, la mia miseria, la mia ideologia giovanile. In maniera anche atroce: per anni non ho dormito, avrei sbattuto la testa contro il muro per la disperazione, desideravo di morire. Ma la depressione è stata la ferita che ha tenuto aperta la mia domanda di Cristo. Oggi chiunque abbia una sofferenza psicologica ritiene di essere malato e va dal medico. Ma io non credo che siamo tutti malati. È che non sopportiamo ciò che tiene quella ferita aperta: che sia depressione, o una malattia, o anche magari l’innamorarci di qualcuno di cui non dovremmo. Vogliamo eliminare in fretta i problemi. Magari moralisticamente vogliamo essere “bravi”. Giussani su questo era radicale: mai invitava a tirarsi indietro, ma sempre ad andare a fondo, ad affrontare ciò che ci si poneva come sfida. A me disse: se dovessi non dormire per un anno, e questo servisse a tenere sveglia la tua domanda di Cristo, ti direi di non dormire. Invece ciò a cui tendiamo è soffocare le ferite, analgesizzarle e addormentare la domanda. [Quest’uomo, pensi, è di una radicalità che affascina e fa paura.]
Tu parli e mostri di vivere di un’unica ragione, Gesù Cristo. Ma prova a guardare alla vita della maggior parte degli uomini oggi, che sembrano fare di Cristo, dunque di un senso ultimo, a meno. Come giudichi tu uno che, non credendo in Dio, nella difficoltà o nella vecchiaia, o anche solo nel vuoto che percepisce, sia più o meno educatamente disperato?

Lo giudico ragionevole. La disperazione, in chi sia convinto di essere solo al mondo e di andare verso il nulla, mi sembra un segno di lucidità, di un non raccontarsi storie.
Dunque è un aut aut: o in Cristo, o non c’è nulla per cui vivere davvero.
Sì, è un aut aut.
Senti: ma se vent’anni fa, quando eri drammaticamente depresso, ti avessero preso e curato con i migliori psicofarmaci, se ti avessero “sistemato” e rasserenato, oggi come saresti?
Non so. Non sarei come ora e credo fermamente che Dio abbia “voluto” questo per fare ciò che ha fatto. Non avrei cercato come ho cercato. Ora posso dire che quella sofferenza, che è stata davvero grande, ha avuto un senso: nei moribondi che assisto, così come in tanti che mi scrivono chiedendo aiuto come a un padre. Ora posso capire le “notti dell’anima” di cui parlano alcuni santi. Capisco quel buio, che è un vuoto teso a provocare una più intensa domanda.
Ma allora dalla depressione non bisogna curarsi? Mi sembra un’idea pericolosa.
Sarei un masochista se rispondessi di no. Dio ci ha creato per essere felici, non per soffrire, e tanto meno per soffrire questa malattia esistenziale che toglie non solo il gusto, ma anche la voglia di vivere. Il problema è accogliere questa malattia, come del resto ogni altra, come una possibilità di redenzione, di purificazione, come occasione per dire con tutta la propria libertà “sì” a Cristo, guardandolo in faccia. Come la ragione e la fede camminano insieme, così anche la fede non può non favorire e sostenere tutte quelle possibilità che la medicina offre per alleviare o vincere il dolore, quando è possibile. Ricordando sempre però che, in questo mondo, il dolore come la morte accompagnano sempre l’uomo. Per cui l’unico senso del dolore lo si coglie guardando il Crocifisso e il Cristo risorto.
Sono tanti, padre Aldo, quelli che ti scrivono?
Tantissimi. Ho ricevuto, dal Meeting del 2008, migliaia di e-mail. È stato come se parlare di depressione in quel contesto, e affermare addirittura che la depressione potesse avere un senso buono, fosse come scoperchiare una pentola. Un’esplosione. Quanti, quelli che si sono sentiti autorizzati a domandare una parola sulla sofferenza e a chiedere consiglio. Tantissimi ragazzi. Mi commuovono i ragazzi: siamo abituati a dire che i giovani sono degli sfortunati. No, gli sfortunati sono i genitori, siamo noi, che gli abbiamo dato ben poco di buono. Loro sono figli uguali a quelli di ogni generazione e forse più assetati: sono, anzi, pura domanda.

Ci sono altre cose che non capisco. Scrivi sempre della tua casa ad Asunción e dei moribondi che vi trovano ricovero. Tu vedi dunque ogni giorno una quantità di dolore per me inimmaginabile. Come fai, di fronte a tanto dolore, a ritenere che la vita sia un bene, un dono di cui essere grati a Dio? (Io, da ragazza, pensavo che nascere fosse una disgrazia).
Anch’io per molto tempo ho pensato che la vita fosse un male e ho passato dei momenti in cui non riuscivo a stare davanti, se non con molta fatica, ai miei genitori, vedendo in loro, per il fatto di avermi messo al mondo, il fattore principale della mia sofferenza. Solo nell’abbraccio di Cristo, nell’abbraccio riconosciuto, ho capito finalmente che nascere è un dono.
Ma questo dono in che cosa consiste? Oggi, magari tacitamente, tanti dubitano che la vita sia un dono.
Che la vita sia un dono io non l’ho capito a priori, perché me l’hanno insegnato al catechismo; quando poi ho conosciuto il “male del vivere”, non ho più sopportato i discorsi sul “dono della vita”, anzi, li rifiutavo. Ho colto il dolore come un dono per me, solo quando ho fatto l’esperienza di quello che Giussani definiva «Io sono Tu che mi fai», cioè quando ho cominciato a guardare me stesso con gli occhi del Tu, del Mistero. Vedevo il mio io fiorire e, intorno a me, crescerne i frutti nelle opere di carità che riempiono questa parrocchia. Solamente quando quel cumulo di macerie, che era il mio Io, è stato messo insieme dalla grazia di un incontro e, dopo lunghi anni di pazienza, ho cominciato a sorridermi, a guardarmi con simpatia; da lì è sbocciato tutto, come un dono imprevisto, come una letizia che mi accompagna.
Padre Aldo, tu non hai paura della morte?
Spero di morire come i miei malati: abbracciato.
Ma intendo il dopo, ciò che c’è dopo, l’Aldilà. Come lo pensi?
Credo che sia un ulteriore ed eterno domandare ed essere dissetati, senza fine. Domandare ed essere dissetati, in una dinamica continua di desiderio e appagamento. Altrimenti, il Paradiso sarebbe noioso. Sarà un domandare ed essere sempre di nuovo abbracciati. Però senza il dolore.

Che cosa pensi dello scandalo della pedofilia nella Chiesa?
Vedi, il fatto è che io non riesco a non provare pietà anche per i pedofili. Perché so, dalla mia esperienza ad Asunción, che spesso essi stessi sono figli di violenze. Perché credo che io stesso, se Dio non mi tenesse la mano sulla testa, potrei essere capace di grandi peccati. Chi ha piena coscienza della propria miseria non sa più accusare, puntare il dito e gridare alla lapidazione. Chi ha coscienza della propria miseria ha pietà.
Il diavolo per te chi è? Come opera sugli uomini?
Il Demonio, quello che insegnano la Scrittura e la Chiesa. Però preferisco non parlarne, non evocarlo. Troppo forte è la memoria degli incubi e delle ossessioni che mi hanno perseguitato per anni. Io prego ogni giorno Dio di morire senza fare male a me stesso, agli altri e alla Chiesa.
Ma tu non ti chiedi perché il dolore, perché il mondo è pieno di dolore?
Non credo che nessun uomo possa essere santo e nemmeno giungere alla sua maturità, senza il dolore, senza affrontare la sua croce. Non c’è scorciatoia: per di lì bisogna passare.
Io ho il terrore del dolore, dopo che ho perso mia sorella bambina. Ho il terrore che mi vengano tolti i miei figli.
Pensa, però, che Dio non ci chiede mai prove troppo grandi per un uomo, prove che quell’uomo non possa sopportare.
Certo, se Cristo fosse quella Presenza concreta di cui tu parli, questo cambierebbe davvero la vita. C’è sempre di mezzo questo fatto di “non vederlo”.
Tu dici che non vedi perché non puoi toccare e misurare, perché sei dentro, come tutti, alla nostra cultura positivista. Ma se tu guardi che cosa succede ai nostri malati che si convertono ad Asunción, sei costretto a dire che c’è in loro un’autentica guarigione. Allora, se opera, “c’è” (è vero); se opera, Cristo è vero.

Che cosa fa bene, che cosa cambia in meglio un uomo?
Secondo me, come mi ha insegnato mia madre, confessarsi spesso. La confessione cambia e guarisce. E l’Eucaristia cambia ontologicamente una persona: il corpo di Cristo in noi ci cambia.
Nella quotidianità, nel fare magari apparentemente banale di tutti i giorni, che cosa fa bene?
L’aderire alla realtà. Mai sfuggirla, mai rifugiarsi nei propri pensieri, chiudersi nella propria stanza, isolarsi. Stare di fronte alla realtà che ci è data, affrontarla. Osservare molto. A me faceva bene guardare gli alberi, le piante e descriverli per iscritto. Per uscire dalle mie ossessioni. Stare tenacemente nella realtà, che è la circostanza in cui Cristo ci si presenta in quel momento. Questo mi ha insegnato Giussani, ed è lo stesso sguardo che ritrovo in don Julián Carrón e in don Massimo Camisasca.
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mercoledì 28 luglio 2010

Marie Therèse: il Mestiere di rinascere (Articoli 18)

Un articolo di Fabio Cavallari dal giornale Tempi ci fa conoscere una bellisima storia:

Il suo lavoro oggi è riconosciuto dal ministero degli Interni e dalla Unione Europea. Politici e parlamentari, affascinati dalla sua esperienza, si sono recati più volte da lei per scoprire e capire la sua opera. Ultima visita, in ordine di tempo, quella del ministro per le Pari opportunità. Marie Therèse Mukamitsindo è una delle tante donne fuggite, nel 1996, dagli orrori della guerra civile del Ruanda.
Un percorso tortuoso, sofferto, carico di angoscia e dolore quello che l’ha portata in Italia.

«Sono scappata dal mio paese con tre dei miei quattro figli, peregrinando tra nazioni, valichi da oltrepassare e documenti da esporre. Quando siamo arrivati in Italia, non avevamo più nulla. Tutti i risparmi li avevamo spesi per il viaggio, non conoscevo la lingua, le leggi. Dopo una prima sistemazione di fortuna, ho cercato disperatamente per due settimane un posto dove stare. Quei giorni trascorsi senza poter contattare la mia famiglia e senza una rete di accoglienza cui potermi rivolgere mi hanno profondamente segnata. Una donna straniera sola è preda delle peggiori situazioni. Ogni aspetto della quotidianità, dal procurarsi il necessario per il sostentamento a richiedere un documento presso le autorità competenti, rischia di diventare una montagna insormontabile. Di chi fidarsi? A chi dare credito?».
L’indomita Marie Therèse inizialmente ha lavorato come badante, poi si è stabilita a Sezze Romano, un piccolo centro in provincia di Latina, fondando l’Associazione Karibu, che in swahili indica un benvenuto cordiale e sincero, con lo scopo di accogliere altre donne che come lei ricevono lo status di rifugiate, oppure hanno appena intrapreso l’iter legale per poterlo ottenere.
«Nei primi mesi della mia permanenza in Italia continuavo a pensare a tutte quelle madri di famiglia che scappano da situazioni di guerra, da violenze inaudite e orrori. Io sono stata fortunata, ma in assenza di un buon sistema di protezione sociale, i pericoli cui le donne, spesso vittime di violenze e torture particolarmente efferate, e i bambini, testimoni innocenti e silenziosi di queste barbarie, rappresentano un bersaglio particolarmente facile da colpire, e dolorosamente difficile da assistere».
Così nel 2004 il progetto Karibu è diventato una cooperativa sociale pensata per tutelare e favorire l’integrazione sociale di queste donne offrendo loro l’opportunità di sentirsi in famiglia, convivendo e sostenendosi reciprocamente.
Dalle quindici ospiti iniziali, oggi si arriva a contare circa sessanta donne dislocate in sei unità abitative ubicate tra il comune di Sezze e quello di Roccacorga.
Karibu rappresenta un modello di gestione innovativo e unico in Italia, dove per la prima volta le attività di assistenza ai rifugiati sono messe in atto da operatori anch’essi fuggiti da situazioni di guerra e la specificità di genere dell’utenza viene valorizzata da una compagine amministrativa e operativa costituita quasi esclusivamente da donne. Il ministero degli Interni ha riconosciuto la cooperativa come luogo privilegiato per offrire prima accoglienza, sostegno e formazione a donne e bambini che arrivano dal Corno d’Africa. A Karibu vengono accolti ragazze e bambini, ammalati nel fisico e nella mente, che devono superare traumi orribili e cercare di tornare a una vita normale. «A queste madri, sorelle e figlie di tutti noi e di tutte le epoche, e ai loro bambini dedichiamo le nostre cure, il nostro tempo e la nostra attenzione, perché cura, tempo e attenzione sono le uniche medicine che possono portare un po’ di sollievo alle spaventose ferite che le “nostre” donne e i “nostri” bambini portano sul corpo e nell’anima. Ciò che viene loro offerto non è semplicemente un alloggio ma un luogo in cui potersi ricostituire come persone e in cui sostenersi reciprocamente»
L’accoglienza per Marie Therèse non è il punto di arrivo, ma un nuovo inizio. Per questo il percorso della cooperativa prevede che le donne siano assistite nello svolgimento dell’iter burocratico della domanda di asilo, ottengano sostegno legale, supporto psicologico e frequentino un corso di italiano per poter padroneggiare bene la lingua. Un processo, quest’ultimo, messo in campo anche con metodi alternativi, come l’impegno diretto in rappresentazioni teatrali o attraverso la gestione quotidiana del vissuto casalingo. Le assistenti insegnano, infatti, l’italiano proprio a partire dal disbrigo delle faccende domestiche.
Acquistare il cibo e prepararlo diventano pertanto azioni educative.
L’alfabetizzazione è uno dei principali obiettivi del centro, non a caso alcune delle donne ospitate sono anche riuscite a ottenere il diploma di scuola media.


Tornare ad essere madri
Capire, saper leggere e interloquire costituisce per queste donne il primo passo verso l’integrazione.
«Abbiamo avviato corsi di formazione per entrare adeguatamente preparate nel mondo del lavoro, ed essere autonome quando escono da questa condizione protetta. Alcune di loro, vuoi per l’età o per la presenza di bambini troppo piccoli, rimangono all’interno del centro e diventano loro stesse operatrici prestando servizio come segretarie, baby sitter, mediatrici culturali, operatrici addette all’accompagnamento sociale. Alcune svolgono ancora oggi queste mansioni, altre hanno lavorato presso la cooperativa in via provvisoria, mentre erano impegnate a portare a termine il proprio progetto di formazione, finalizzato all’ottenimento di un nuovo lavoro.
L’obiettivo primario è portare sollievo alle donne aiutandole ad essere nuovamente protagoniste della loro vita. Alle madri che arrivano con figli piccoli cerchiamo di far comprendere che anche con un passato di sofferenze e privazioni possono tornare ad appassionarsi alla vita, ad amare pienamente i loro bambini. Spesso i traumi subìti e le violenze le rendono incapaci di essere madri. Il nostro compito, con l’aiuto di psicologi e operatori, è quello di rieducarle a una maternità consapevole. I minori al seguito delle madri vengono regolarmente inseriti nei circuiti scolastici obbligatori.
Accordi informali con le scuole presenti sul territorio consentono l’inserimento dei minori in età scolare in qualsiasi momento dell’anno. La cooperativa ha attivato inoltre un baby parking, finanziato dalla Regione Lazio, per i bambini delle donne ospiti del centro di accoglienza nell’ambito del quale si organizzano anche attività di doposcuola e di sostegno allo studio destinate a bambini e adolescenti in età scolare».
A Sezze Romano l’integrazione è una parola che si coniuga con diritti e doveri. Le donne imparano la lingua, un lavoro, il concetto di responsabilità. L’accoglienza è innanzitutto un percorso di emancipazione che rifugge dal mero assistenzialismo conducendo ogni soggetto a diventare “primo attore” della propria esistenza.
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Richiesta di preghiera

Non era ancora capitato (ma c'è sempre una prima volta) ma qualcuno ha inserito una richiesta di preghiera che rendo pubblica invitando TUTTI a fare una preghiera per questa persona che invito a restare serena e a confidare nell'aiuto e nella misericordia di Dio:

io chiedo una preghiera per me visto che lo scorso agosto mi sono operato ai turbinati e oggi, dopo quasi un anno, mi comunicano che devo rifare l'itervento e ricapita nuovamente in agosto di quest'anno.  grazie a quanti si uniscono in preghiera per me. oggi la mia paura e più dello scorso anno.
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martedì 27 luglio 2010

Il segno di Duisburg nell’Europa che rivuole catacombe (Contributi 345)

Riporto da Avvenire un articolo di Davide Rondoni:

La parata dell’amore, la love parade si è trasformata in un incubo. In una tragedia. Come se nell’inutile, vano macello di questi poveri ragazzi, tra cui una italiana – bella e sensibile – di 21 anni, ci fosse un marchio strano, un avviso strano di questa epoca strana. Come in altri casi, ad esempio nell’indimenticato stadio Heysel, lo show è andato avanti.

Dopo molte ore, molti delle migliaia dei ragazzi partecipanti non sapevano nulla di quanto accaduto, storditi dal ballo, dal bere e da altro. Ma l’avviso, il segno che leggiamo dentro questo ballare che si trasforma in morte, dentro questa parata che da eccitante si fa morente, non è quello immediato, evidente che hanno colto subito gli stessi organizzatori. Che hanno deciso: mai più. Non è solo un segno, ennesimo, di «eccesso giovanile» su cui non è giusto speculare. E non si tratta solo del segno che qualcuno ha chiamato del fascino della «tribù».
È vero, c’è in questo potente richiamo a radunarsi, a "sentirsi" vicini, a condividere ritmo e corpo, a condividere modi e gergo, sì c’è un segno dell’ancestrale richiamo degli uomini a fare tribù. Richiamo che le esperienze e i mezzi della globalizzazione, la coscienza delle distanze e dei rapidi modi per superarle, non hanno illanguidito, semmai fortificato e reso potente, più esplosivo. Ma c’è di più di quell’antico segno. La parade è un corteo. Una processione. So che storceranno il naso. Ma è così. Si tratta di una ripresa della usanza antica che, sempre a sfondo religioso, ha mosso cortei di ogni genere, per celebrare dei, imperatori o generali che si credono dei, per ringraziare il cielo di vittorie, per supplicare interventi celesti, per la fine di calamità, o per l’arrivo delle piogge.
È un grande rito. Secolarizzato, come dicono, con una parola che vuol dire poco o niente. Che cosa ormai è secolare e cosa no? Davvero ci sono differenze, in questa epoca di suggestioni e di superstizioni?
Il fatto è proprio questo, il segno purtroppo scritto anche con il sangue, come sempre accade quando la nostra attenzione intorpidita deve riscuotersi e guardare. Un grande rito nel cuore d’Europa.
Un grande rito che somiglia (nella sua eccezionale differenza) ai grandi ritrovi dei giovani lanciati da Giovanni Paolo II – ancora storceranno il naso quelli di prima. Un rito di una «tribù» che ha come dei le immagini dell’Amore, della Musica, e della loro medesima Tribù. Come antichissimi riti. Che segno, che avviso per coloro che pensano che l’uomo sia progredito abbandonando quei culti e quei riti.
Che segno per coloro che anche sulla pagine dei nostri giornali e nei parlamenti europei si consumano il cervello per mostrare che credere in Gesù Cristo e mostrare segni cristiani sia oscuro e antidemocratico mentre avere altre fedi, altre superstizioni, e sì, altri riti e "parate" no? Che avviso, che segno per tali cervelli torbidi e oziosi. La loro lotta senza quartiere al cristianesimo, alla Croce e al Crocifisso, punta a far scomparire o a far rientrare nelle catacombe i riti cristiani, le processioni, le preghiere. E se si faranno largo – e già si fanno largo – altre processioni, altri riti, uomini dediti ad altri dei?
Altro che secolarizzazione.
Come per i primi cristiani si tratta di vivere in un mondo pieno di adoratori. Di riti strani, dai risvolti spesso violenti, di poteri oscuri.
Questo il segno che arriva da Duisburg. Lo stiamo leggendo?
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Commenti inerenti quale autorità... (Post 104)

Mi ha fatto piacere che un amico, a cui solo la distrazione ha impedito di firmare con nome e cognome il suo anonimo intervento, mi abbia suggerito un sito in cui andare a vedere un po' delle solite menzogne usate da protestanti e testimoni di geova contro la Chiesa Cattolica. Nella calura estiva è un ottimo esercizio andare a confutare le inesattezze che vengono ampiamente sparse nel sito. Con diabolica abilità si mescolano verità dette male in modo da sembrare peggiori a bugie dette in modo da far apparire colpe che non ci sono. Ma una volta ringraziato chi, per questa settimana mi ha evitato l'acquisto dell'enigmistica per tenere occupata la mente, lo devo invitare a far uso di prodotti che migliorino le sue facoltà mnemoniche onde evitare per un eventuale futuro di lasciarci ancora nell'ignoranza del suo nome per poter dare miglior forma al nostro ringraziamento.
Venendo ora alle cose serie, ho avuto due commenti molto interessanti come risposta al post sulla "non giudicabilità della Chiesa" e in linea con quanto in esso detto:
SG (molto presente - per fortuna - ultimamente) dice:
Questo articolo dovrebbe essere scritto sui quotidiani affinché almeno molti abbiano chiara la situazione, il punto di vista della Chiesa. Poi sarebbe bello che qualcuno aprisse gli occhi!
molto significativo anche il commento di Elisabetta Bomini:
Ho avuto una meravigliosa Famiglia che mi ha insegnato il rispetto per gli altri, ed inoltre la Santità della Chiesa e dei Sacerdoti. Ho incontrato il RnS in un momento durissimo della vita, ed ho incontato unn Dio vivente. Odio chi si scaglia conto il Vaticano, il Papa, o i vari Prelati. Credo che Dio possa giudicare poichè conosce il cuore dell'uomo, ma l'uomo come si permette di puntare il dito contro la Madre Chiesa?
Ma quando penso che abbiamo Crocifisso Gesù che è venuto a predicare ed a sanare, capisco quanto la nostra mente sia piccola e meschina.
Grazie per avermi dato l'opportunità di conoscere questa pagina molto bella ed intelletttualmente molto chiarificatrice.
In realtà sono io a dover ringraziare tutti coloro che lasciano i loro commenti, in particolare reputo interessante quello di Luciana Russo (anche se fatto su un diverso post, quello sulla storicità dei vangeli):
anche i non cattolici non possono negare la presenza nella storia di Gesù Cristo, non una leggenda quindi o una figura mitologica da narrare ai posteri, ma un soggetto realmente esistito che ha lasciato testimonianze dei suoi contemporanei, non solo dei suoi seguaci, sul suo " modus vivendi". La sua grandezza è giunta fino a noi grazie alle parole di chi l'ha conosciuto e che ha reso a distanza di 2000 anni circa il suo messaggio attualissimo.

Che dire.. sono cose come queste che ricaricano della fatica di seguire il blog...
Grazie ancora.
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lunedì 26 luglio 2010

Notti brave: ognuno si prenda le proprie responsabilità (Contributi 344)

Riporto il testo dell'ultimo editoriale di Samizdat On Line, che è solo apparentemente semplice e che mi sento di sottoscrivere in toto :

Ci sarà – anzi, certo c’è – del vero nell’inchiesta di Panorama sulle «notti brave dei preti gay». E lasciamo tutta la responsabilità agli autori del servizio, come anche all’Editore, nel pubblicizzare questa sporcizia, questa nefandezza, questo disgustoso spettacolo (a volte pare che cresca il gusto “macabro” di comunicare il male, con un compiacimento che ha, forse, del patologico).

Ma c’è un disgusto – e un’ira – nei confronti di quei soggetti che vivono quelle situazioni. Non è in gioco la misericordia: questo è affare di Dio, e della coscienza di quei disgraziati.
È che non se ne può più di questi tipi che usano la Chiesa per nascondere le loro fragilità, che vivono di quel “carrierismo” denunciato da Benedetto XVI, senza alcuno scrupolo morale.
Non se ne può più di quel “marcio” che vive nella Chiesa e che la infanga, senza poi che chi lo compie ne paghi le conseguenze.
Quelle le paghiamo noi, sacerdoti e laici, che cerchiamo di vivere la missione nei vari ambienti in cui operiamo.
Quelli non vanno certo a scuola o nei luoghi di lavoro a difendere la Chiesa da quelle ferite e offese che l’hanno infangata.
Noi sì!
Noi siamo fieri di quella Chiesa di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI, e siamo stanchi di sopportare chi «rema contro», in un gioco al massacro che distrugge sempre più la speranza negli uomini (e nei giovani, in particolare. Ricordiamo il detto terribile di Gesù a proposito di chi «scandalizza uno di questi miei fratelli più piccoli»).
Siamo stanchi della derisione – provocata da quei comportamenti – che si ritorce non sui colpevoli, che comunque sono disprezzati (come gli «utili idioti») ma su coloro che sono fedeli.
Abbiamo già detto più volte che la soluzione sta nel riconoscere e dare spazio alle tante esperienze di Chiesa vera che mostrano ancora oggi il fascino del cristianesimo vissuto, e che sono presenti in tanta parte del nostro popolo italiano.
La nostra appartenenza ecclesiale non è un affare privato, una questione insignificante: il Papa continuamente ci ricorda che è la ragione di una speranza che continuamente si rinnova.
Gesù diceva di «vincere il male col bene»: la vittoria su quello squallore umano (prima ancora che cristiano) sarà nel rifiorire di autentiche esperienze ecclesiali dove una carità vissuta nel quotidiano e una fede amica della ragione si uniranno per mostrare la convenienza vera del cristianesimo.
Non una formula ci salverà, - ci ha ricordato Giovanni Paolo II - ma una Presenza, e la certezza che essa ci infonde: «Io sono con voi!» Non si tratta, allora, di inventare un «nuovo programma». Il programma c’è già: è quello di sempre, raccolto dal Vangelo e dalla viva Tradizione. Esso si incentra, in ultima analisi, in Cristo stesso, da conoscere, amare, imitare, per vivere in lui la vita trinitaria, e trasformare con lui la storia fino al suo compimento nella Gerusalemme celeste.
Quello stesso Gesù che vive nella sua Chiesa, testimoniato dal grande magistero pontificio.
E chi non condivide questo magistero farebbe bene a togliersi di mezzo.
E chi lo condivide e lo sostiene trovi il coraggio e la fierezza di comunicarlo.
Quanto a noi, condividiamo il giudizio del Vicariato di Roma, e chiediamo di ripartire da qui.
Non lo scandalo costruisce, ma una novità di vita, qui e ora.
Se condividi, sottoscrivi, indicando il tuo nome e cognome, con la tua mail. Puoi anche aggiungere un tuo commento. Il modulo è in fondo alla pagina, dopo le firme.
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Nessuna autorità su questa terra può giudicare la Chiesa e il Papa (Articoli 17)

Ecco un articolo di Roberto de Mattei sui recenti attacchi alla Chiesa in Belgio, negli USA e nel Regno Unito:

«Prima sedes a nemine iudicatur». «La Sede Apostolica Romana non può essere giudicata da nessuno», recita il canone 1404 del Codice di Diritto Canonico attualmente in vigore.

Le origini di questo assioma sulla ingiudicabilità papale sono antiche e gloriose.
Esso fu formulato da san Gregorio VII nel Dictatus Papae (1075) contro il cesaropapismo tedesco; fu proclamato da Bonifacio VIII nella Bolla Unam Sanctam (1302) contro il gallicanesimo di Filippo il Bello; fu definito dal Concilio Vaticano I (1870) contro il laicismo liberale. È da questa affermazione di principio che deve partire una reazione alle aggressioni del relativismo contemporaneo che non voglia essere timida e velleitaria. Non dobbiamo sforzarci di dimostrare che il Papa è “innocente” delle ignobili accuse di “correità” con i crimini della pedofilia.
Dobbiamo innanzitutto ribadire che il Papa non può essere giudicato da nessuno e respingere con sdegno i tentativi di portare la Chiesa in tribunale. Parliamo della Chiesa, non di singoli vescovi o sacerdoti. I reati che possono essere commessi da singoli uomini di Chiesa non possono mai essere addossati alla Chiesa in quanto tale, perché Essa è una società giuridica perfetta, per sua natura ingiudicabile.
Eppure, è proprio su questo punto che si svolge l’attacco in corso. Ciò che sta accadendo deve farci riflettere.
Il 24 giugno a Bruxelles, mentre era in corso una riunione della Conferenza Episcopale, una trentina di poliziotti, su ordine della magistratura, hanno fatto irruzione nell’Arcivescovado e trattenuto per nove ore in stato di fermo i vescovi presenti. Lo stesso giorno, armati di martelli pneumatici, i poliziotti sono scesi nella cripta della cattedrale di Saint Rombout a Malines, ed hanno profanato le tombe dei cardinali Jozef-Ernest Van Roey e Léon-Joseph Suenens, defunti Arcivescovi di Malines-Bruxelles, alla ricerca di improbabili “documenti”. Sono stati inoltre sequestrati tutti i 475 dossier sulla pedofilia, in esame da parte di una Commissione indipendente nominata dalla curia e, qualche giorno dopo, è stata perquisita l’abitazione del cardinale Godfried Danneels, primate dal 1979 al 2009 della Chiesa belga, che ha trascorso dieci ore sotto interrogatorio negli uffici di polizia.
È fin troppo chiaro che con il pretesto di un’indagine su casi di pedofilia si vorrebbe portare in giudizio, e screditare mediaticamente, non questo o quel prelato, ma l’intera Chiesa belga.
Nulla di simile contro la Chiesa era accaduto in Europa dai tempi della guerra civile di Spagna (1936-1939).
Ma quanto è avvenuto pochi giorni dopo negli Stati Uniti è ancora più preoccupante. Il 29 giugno, la Corte suprema ha tolto l’immunità giuridica alla Chiesa in America, ammettendo che le autorità vaticane possano essere imputate in un processo nell’Oregon per abusi sessuali commessi da un religioso. La Chiesa è di fatto privata della sua dimensione giuridica sovranazionale e ridotta ad associazione meramente privata, in cui i superiori rispondono in solido delle colpe dei propri dipendenti. Teoricamente, quindi, questo tribunale potrebbe convalidare la chiamata in causa come imputati di Papa Benedetto XVI, del suo segretario di Stato cardinale Tarcisio Bertone e del nunzio apostolico negli Stati Uniti, l’arcivescovo Pietro Sambi.
Ciò avviene mentre alla vigilia del viaggio di Benedetto XVI in Inghilterra alcuni militanti ateisti hanno formulato la medesima richiesta alla magistratura di quel Paese.
Alcune considerazioni a questo punto si impongono.
Negli anni del Concilio si disse che la Chiesa avrebbe dovuto abbandonare toni fermi e posizioni intransigenti per cercare il dialogo con il mondo moderno: un mondo che non era ostile o estraneo ad essa, ma l’avrebbe anzi arricchita nel mutuo confronto.
L’avanguardia di questa nuova “pastorale” si trovava in Centro-Europa e aveva il suo campione nel cardinale Leo-Joseph Suenens, primate del Belgio, l’uomo che nel 1968 guidò la resistenza a Paolo VI sull’Humanae Vitae.
Ma oggi il Belgio, che è il Paese più secolarizzato d’Europa, non ha pietà neppure per la sua tomba.
I cattolici hanno mutato il loro atteggiamento verso il mondo praticando un falso dialogo, ma il processo di scristianizzazione non si è arrestato. Il mondo non si è lasciato “permeare” dall’influenza della Chiesa, ma si è organizzato contro di essa.
Come negare l’esistenza di una strategia di aggressione anticristiana coerente e sistematica, al punto da voler rimuovere la stessa presenza del Crocifisso da ogni luogo pubblico?
Benedetto XVI ha annunciato, il 28 giugno, la creazione di un Consiglio Pontificio per la nuova evangelizzazione dei Paesi che per primi hanno ricevuto in Europa la fede cristiana. La parola di nazioni “apostate” non è stata pronunciata, senza dubbio perché la canea mediatica, come osserva Jean Madiran, vi vedrebbe una dichiarazione di guerra (“Présent”, 3 luglio 2010).
Ma lo stesso Benedetto XVI, il 24 marzo 2007, ha già usato il termine di “apostasia” per indicare il cammino a ritroso che va percorrendo l’Europa dei nostri giorni: dalla fede cristiana a un tribalismo dissolvitore in cui nulla rimane dei principi e delle istituzioni che già fecero grande il nostro continente.
Quando gli Stati impongono ai loro popoli l’educazione sessuale obbligatoria, il “matrimonio” omosessuale, l’aborto, l’eutanasia, la distruzione degli embrioni, si macchiano di apostasia perché capovolgono l’ordine naturale e cristiano trasmesso loro dai primi evangelizzatori.
Ciò avviene seguendo un piano preciso promosso da centrali anticristiane, che ora alzano il tiro.
Nella battaglia in corso, la Chiesa non ha una forza politica, economica o mediatica da poter opporre al mondo. L’unica arma di cui dispone è quella della verità religiosa e morale di cui è custode.
La Chiesa infatti, diceva Pio XII, «è una potenza religiosa e morale, la cui competenza si estende a tutto il campo religioso e morale, e questo a sua volta abbraccia l’attività libera e responsabile dell’uomo, considerato in se stesso e nella società» (Discorso del 12 maggio 1953). Essa rivendica il diritto di giudicare gli uomini e le società in nome della legge divina e naturale che custodisce, ma non può essere giudicata da alcuna autorità umana, perché nessuna autorità sulla terra le è moralmente o giuridicamente superiore. Definire la verità, condannare l’errore, fa parte della sua missione. Questa missione postula la libertà e l’indipendenza dal potere civile.
La Chiesa, nel corso della sua storia, ha sempre combattuto per difendere la propria libertà contro le prevaricazioni dei potenti di turno. «Nell’affidare a Pietro il proprio gregge, il Signore non ha certo inteso fare eccezione per i re», scriveva san Gregorio VII, rivendicando il principio della suprema e universale giurisdizione del Pontefice su tutti gli uomini, non eccettuati i re, riassunto dalla 19 sentenza del Dictatus Papae.
Nel suo discorso del 29 giugno, il Papa ha rivendicato, come san Gregorio, la «libertas ecclesiae» e ha osservato che «se pensiamo ai due millenni di storia della Chiesa, possiamo osservare che – come aveva preannunciato il Signore Gesù (cfr. Mt 10, 16-33) – non sono mai mancate per i cristiani le prove, che in alcuni periodi e luoghi hanno assunto il carattere di vere e proprie persecuzioni.
Queste, però, malgrado le sofferenze che provocano, non costituiscono il pericolo più grave per la Chiesa.
Il danno maggiore, infatti, essa lo subisce da ciò che inquina la fede e la vita cristiana dei suoi membri e delle sue comunità, intaccando l’integrità del Corpo mistico, indebolendo la sua capacità di profezia e di testimonianza, appannando la bellezza del suo volto».
Vi è però «una garanzia di libertà assicurata da Dio alla Chiesa, libertà sia dai lacci materiali che cercano di impedirne o coartarne la missione, sia dai mali spirituali e morali, che possono intaccarne l’autenticità e la credibilità» (“Osservatore Romano”, 30 giugno 2010). Ciò significa che è al proprio interno che la Chiesa deve trovare le risorse della sua rinascita. Benedetto XVI sembra esserne convinto.
La Chiesa, come nell’undicesimo secolo, ha bisogno di una grande riforma spirituale. Ma questa riforma, come fu ai tempi di Ildebrando da Saona e di Pier Damiani, deve avere il suo fulcro nella consapevolezza del Primato religioso e morale, su ogni creatura, del Romano Pontefice.
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venerdì 23 luglio 2010

Perché la Bbc vieta le battute sull'Islam, ma incoraggia gli insulti al Vaticano? (Contributi 343)

Riporto da Il Sussidiario questo articolo di Luca Volontè che ci mostra un pericolo molto serio per la nostra società, la sottile persecuzione ai cristiani:

I fatti valgono più di ogni argomento.
È da tempo che la televisione pubblica inglese, l’unica a cui i cittadini pagano un canone pubblico, la "prestigiosa" Bbc, crea polemiche e dispiaceri a tutti i fedeli di ogni chiesa cristiana. Gli insulti al Papa crescono al diminuire dei giorni che lo separano dalla visita apostolica, quelli alla Chiesa Anglicana si moltiplicano dopo l’empasse sull'ordinazione di sacerdoti donne e vescovi gay e lesbiche.

I fatti sono tanto chiari, quanto ripetuti, la "giustificazione ufficiale" è la goccia che ha fatto traboccare il vaso della Chiesa anglicana e Cattolica. Infatti, la Bbc si è sentita in dovere di dare una propria spiegazione, dopo l’ennesima protesta delle Chiese Cristiane. Alla Bbc si potrà continuare a fare battute, anche irriverenti, sui cristiani o sul Vaticano ma ogni presa in giro dell'Islam è severamente vietata. Lo ha deciso, secondo quanto riporta un tabloid, il direttore generale del servizio pubblico britannico.
Per il numero uno della Bbc, memore delle proteste per le vignette blasfeme su Maometto, ma assolutamente indifferente alle vibrate proteste cattoliche e anglicane, i musulmani "sono più suscettibili dei cristiani ", “sono una minoranza già marginalizzata” e quindi è meglio non irritarli. Non importa se alcuni quartieri di importanti città inglesi siano già sotto la "giurisdizione" degli imam, non importa se la shaaria divenga sempre più popolare tra i sudditi inglesi di sua Maestà, non importa nemmeno se ai cristiani è vietato indossare crocifissi o santini sul proprio abbigliamento.
No, per la Bbc tutto è tollerabile contro i cristiani, anzi gli insulti possono anche aver una buona dose di utilità per rendere più coesa la società inglese. Sic!
La patria dei nuovi laici ateisti non dà certo prova di tolleranza, né di rispetto del diritto umano di credo religioso. Alla libertà religiosa si sostituisce la libertà di insulto religioso, ma solo se cristiano.

La guerra per l’informazione pubblica subisce un altro smacco, si ripete la competizione anglo-spagnola verso il peggio. Stavolta il Ministro dell’Industria e Comunicazione del Governo "Z" ha deciso di sanzionare la associazione di quotidiani e settimanali cattolici Intreconomia per un video sulla manifestazione dell’orgoglio gay svoltasi qualche settimana fa a Madrid.

Le immagini del video sono tratte, tutte, dalla manifestazione di omosessuali e lesbiche madrilene, tra un'immagine e l’altra alcuni "cartelli" a commento pongono domande chiare e commenti concisi sugli atteggiamenti che si vedono nel filmato. Il governo ha affermato che il messaggio pubblicitario, ha violato una legge che vieta la diffusione di messaggi pubblicitari favorevoli a “discriminazioni basate su razza, sesso, religione, nazionalità, e di opinione”.
La pubblicità, però, ha mostrato soltanto il messaggio effettivo degli omosessuali marciando e ballando in parate del Gay Pride Day e ha chiesto alle domande semplici e toccanti: «È questo il tipo di società vuoi?», «Sono questi gli esempi che volete per i vostri bambini?», «Orgoglio gay… Orgoglioso di che cosa?».
L'annuncio ha anche cercato di opporsi al Gay Pride Day, il video si conclude con una sequenza foto che riproducono persone al lavoro, anziani, famiglie, insomma gente che vive la propria giornata normalmente e invitando tutti ad essere orgogliosi degli altri 364 giorni di “orgoglio per gli eterosessuali”.
La decisione ci dice che in Spagna c’è una democrazia sui generis, nella quale viene introdotta una "polizia del pensiero". Una sanzione che rappresenta una contraddizione con il principio democratico fondamentale: il diritto di espressione, non la censura, dovrebbe prevalere in una società libera. Gran Bretagna e Spagna purchè… ce se magnano le libertà fondamentali e i valori cristiani.
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giovedì 22 luglio 2010

Sulla storicità dei Vangeli (Post 103)

Con il post precedente ho introdotto l’argomento della storicità del fatto cristiano e dei Vangeli. Colgo subito l’occasione per ringraziare l’amico Fabrizio per il bellissimo commento che ci ha voluto donare e che potete leggere voi stessi in calce al post precedente il presente. Il punto che ci sta a cuore,a me e all’amica che mi ha suggerito il tema è questo: il cristianesimo non è una religione intesa come umana costruzione filosofica intorno al divino. Il cristianesimo è un fatto, un avvenimento. E’ l’irrompere all’interno della storia dell’uomo di Dio. Gesù Cristo è Dio stesso che si fa compagno di cammino dell’uomo, di ogni uomo. Ogni situazione, lieta o dolorosa che sia non è l’incombere del fato e fine a se stessa, ma è stata presa e abbracciata da Dio nella persona di Gesù Cristo e quindi redenta.

Gesù Cristo è Dio incarnato che entra nella vita dell’uomo e i Vangeli sono la cronaca di questo avvenimento eccezionale. Fin dalle prime pagine. Prendiamo ad esempio la cronaca che Giovanni (la mascotte del gruppo, il più giovane e, forse di conseguenza, il preferito di Gesù) fa del primo incontro con Gesù: non dice cose particolare, anzi è molto avaro di dettagli, ci racconta solo che lui e Andrea (un suo socio in affari, insieme ai rispettivi fratelli avevano – diremmo oggi – una cooperativa di pescatori) dietro un suggerimento di Giovanni Battista seguivano Gesù e che alla domanda di Lui “che cercate ?” rispondono (forse un po’ imbarazzati e presi in contropiede) “Maestro dove abiti ?” e Gesù di rimando “Venite e vedete”. Nient’altro. Solo un particolare: erano le quattro del pomeriggio. Non racconta dove sono andati o cosa si sono detti. Solo ci dice l’ora in cui quest’incontro è avvenuto. E scrive la cronaca a oltre sessant’anni di distanza. E’ facile concludere che quel momento è stato fondamentale per la sua vita. E anche per quella di Andrea visto che appena tornato a casa e incontrato il fratello Simone (detto anche Pietro) gli dice “abbiamo incontrato il Messia”.
Già questo è un punto a favore della storicità del testo evangelico. Se uno qualunque di noi volesse inventare di sana pianta una storia su un presunto incontro con Dio, sarebbe particolarmente ricco di dettagli nel descrivere il primo incontro. Invece nulla. Solo l’annotazione dell’orario.
Ma ci sono altre considerazioni da fare:
1) la figura di Pietro, il primo degli apostoli, colui che è chiamato da Gesù a guidare e conformare i fratelli dopo la Sua ascensione. In più di un episodio fa una figura ben misera. Specie nel momento culmine dell’arresto di Gesù: aveva appena detto “dovessi anche morire con Te non ti rinnegherò mai” ed ecco che basta l’accusa di una domestica a farlo impaurire. Non ci siamo. Se io invento una storia faccio fare una figura bellissima a Pietro. Magari una difesa strenua di Gesù al momento dell’arresto e una fuga rocambolesca per mettersi in salvo. Ma se i Vangeli raccontano così c’è una sola spiegazione: è perché i fatti si sono svolti in quel modo.
2) La resurrezione. La prima persona che incontra Gesù risorto è Maria di Magdala, la Maddalena. Donna e per di più un’ex prostituta. Una persona la cui parola per la mentalità dell’epoca non aveva il benché minimo valore. Eppure è a lei (che ha molto peccato ma ha molto amato) che è affidato il compito di annunciare agli apostoli (impauriti e ben nascosti) che Gesù è risorto. E gli apostoli stessi stentano a crederle (altra misera figura che un racconto di fantasia avrebbe evitato accuratamente). Se io invento la storia faccio apparire Gesù davanti a tutti gli apostoli con tutti gli effetti speciali del caso, magari anche di fronte a Pilato e ad Erode. Perché no davanti al sinedrio, ad Anna e Caifa. Invece nulla solo una donna con una pessima fama alle spalle.
3) Ancora di più. Questo gruppo di spauriti pescatori, forse anche analfabeti diventa dopo l’ascensione e specialmente dopo la pentecoste un gruppo inarrestabile di annunciatori dell’evento di cui – loro malgrado – sono stati protagonisti. E cambiano radicalmente le loro abitudini al punto di spostare il giorno di festa dal sabato ebraico alla domenica (il primo giorno dopo il sabato)


Non è razionalmente spiegabile che un gruppo di persone di cultura non particolarmente elevata si sia portato da un angolo sperduto della provincia del grande impero romano nella stessa Roma ad annunciare la vita, morte e resurrezione di Gesù trovando moltissimi seguaci. Sarebbe come se ora, dal più sperduto paesino delle montagne lucane un gruppo di pastori che parlano a malapena l’italiano andassero a New York ad annunciare (ottenendo un discreto seguito) una qualche nuova teoria religiosa.
Quindi, tirando le fila di questo mio piccolo intervento, c’è una sola spiegazione a tutto ciò. I Vangeli sono il diario, gli appunti di un gruppo di uomini che hanno incontrato Gesù e hanno cambiato la loro vita in seguito a quest’incontro, fino a capire che il problema non è una coerenza (Pietro è la dimostrazione evidente di ciò) ma un amore a Dio. Nell’ultimo capitolo del suo Vangelo, Giovanni racconta l’incontro fra Gesù ormai risorto e gli apostoli. Pietro è reduce dal rinnegamento e ancora se ne vergogna, ma Gesù non gli chiede conto di questo ma gli domanda semplicemente “Simone di Giovanni, mi ami tu più di costoro?” e sul si di Pietro fonda la Chiesa, che è il mantenersi della presenza di Dio in mezzo agli uomini. Malgrado e attraverso i limiti delle persone che fanno parte di questa grande compagnia (la Chiesa) di cui mi onoro (come umile componente) di appartenere.
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mercoledì 21 luglio 2010

Un Fatto storico (Contributi 342)

Il cristianesimo è un fatto storico, un evento realmente accaduto. E' l'avvenimento più importante della storia. Dio, il creatore di tutto e di ogni uomo ha condiviso l'esperienza di noi uomini, si è reso incontrabile nella persona di Gesù Cristo. I Vangeli sono la narrazione, gli "appunti di viaggio" degli uomini che Lo hanno incontrato e conosciuto.
Uomini che hanno conosciuto Gesù e ne sono rimasti affascinati e hanno giocato tutta la loro vita su di Lui. E hanno cambiato il mondo in cui hanno vissuto, hanno convertito la realtà che li cinrcondava, anche morendo spesso, ma contagiando dello stesso fascino che aveva contagiato loro, gli uomini che hanno incontrato.
Qui riporto dal blog di Bruno Mastroianni un articolo che testimonia questo. Ma presto ne verranno altri.

Una scoperta archeologica conferma la linea del Papa
La fede, secondo Benedetto XVI, non è stoltezza, ma riconoscimento della credibilità della «testimonianza degli Apostoli: essi erano pochi, semplici e poveri, affranti a motivo della Crocifissione del loro Maestro; eppure molte persone sapienti, nobili e ricche si sono convertite in poco tempo all’ascolto della loro predicazione». È un fenomeno che il Papa, in una delle scorse udienze, ha definito «storicamente prodigioso, a cui difficilmente si può dare altra ragionevole risposta, se non quella dell’incontro degli Apostoli con il Signore Risorto».

Ecco perché nonostante l’ondata sulla pedofilia e quella nuova sugli smerci immobiliari, il Papa è tranquillo. I preti e il sesso, i preti e i soldi: sono i classici argomenti che, da secoli, scatenano attenzioni pruriginose. Oggi vengono trascritti su carta di giornale, ma la sostanza non cambia: è il gusto di rimestare nel torbido delle debolezze (vere o presunte) degli ecclesiastici. Ma il futuro della Chiesa si gioca altrove.
La settimana scorsa a Roma è stata presentata una scoperta preziosa: le raffigurazioni più antiche dei volti degli apostoli Pietro, Andrea e Giovanni sono state ritrovate nelle catacombe di Santa Tecla. Ci sono voluti più di due anni e l’uso del laser per raschiare il calcare che li ricopriva.
È sorprendente come questo ritrovamento archeologico corrisponda al programma spirituale che il Papa sta proponendo ai membri della Chiesa: mostrarsi con il volto dei veri apostoli. Ecco cosa scrosterà la patina mediatica che li offusca.
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lunedì 19 luglio 2010

Bell'amore (Contributi 341)

Nel post (precedente, per me che inserisco i testi, successivo per voi che li leggete) è riportato il testo completo del discorso del Patriarca di Venezia. Qui di seguito invece l'editoriale di Samizdat On Line sull'argomento:

Cosa vuol dire bell’amore? Quando l’amore è bello? Tommaso parla della bellezza come dello “splendore della verità”. Per Bonaventura la persona che “vede Dio nella contemplazione”, cioè che lo ama, è resa tutta bella (pulchrificatur) .

La tradizione cristiana, con le parole del Salmo, definisce Gesù Cristo come «il più bello tra i figli dell’uomo» (Sal 45,3). Il bell’amore pertanto non è un’Idea astratta, ma la persona di Gesù, bellezza visibile del Dio invisibile, che per amore si è fatto come uno di noi. (…)
Con la dottrina del bell’amore il cristianesimo ha dunque la pretesa di intercettare una delle dinamiche fondamentali della vita dell’uomo. Questo dato, tuttavia, non può ignorare le pesanti prove cui oggi sono sottoposte le relazioni, anche le più intime, come quelle tra uomo e donna, tra marito e moglie, tra genitori e figli. L’amore non è mai stato una realtà a buon mercato, tantomeno lo è oggi.
Proprio nelle relazioni amorose si avvertono gli effetti della difficile stagione che stiamo vivendo. È mutata la grammatica degli affetti, anzitutto nel suo elemento determinante che è la differenza sessuale. E dalla sfera privata tale processo sempre più va dilagando nella stessa vita civile.
Tra quanto viene quotidianamente immesso dai codici culturali dominanti e il messaggio cristiano del bell’amore sembra essersi scavato un fossato invalicabile.
Nell’attuale e magmatico contesto culturale si può ancora ragionevolmente credere nella proposta cristiana del bell’amore?

Ora potete proseguire con le parole del Cardinale...
e se poi volete leggere anche gli interventi degli anni precedenti..
L’umana sofferenza e l’opera del Redentore (2009),
La famiglia italiana fonte di progresso (2008),
Infrangere il tabù dell’anima per giovarci delle scienze (2007),
Educare nella società in transizione (2006),
La speranza del Redentore ci dona una nuova laicità (2005),
Una “Civitas” per l’umanità (2004),
Una speranza che non delude (2003)
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Scola: la proposta cristiana del "bell'amore" è ancora credibile? (Contributi 340)

Riprendo da Il Sussidiario un intervento di Angelo Scola, Patriarca di Venezia.

La Festa veneziana del Redentore, che cade la terza domenica di luglio, è stata negli ultimi anni occasione privilegiata per una riflessione approfondita che il Patriarca di Venezia offre su temi che toccano la vita concreta e quotidiana degli uomini e delle donne di oggi, sviluppati a partire dalla luce particolare che sa gettare l’antica festa religiosa e civile.

1. L’immagine biblica del bell’amore

La liturgia della Festa del Santissimo Redentore ci riempie della più grande consolazione, quando afferma: «L’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato»(Rm 5, 5). Dio Padre, mediante le sue “due mani” - come Ireneo di Lione chiamava il Figlio e lo Spirito Santo - si prende cura di noi e ci sostiene con la speranza che non delude (Rm 5, 5). Lieti nel Signore possiamo affrontare l’esistenza, nel suo intreccio di affetti lavoro e riposo, come figli e figlie nell’Unigenito Figlio di Dio.
L’esperienza comune ad ogni uomo traccia la via maestra per imparare questa tenera figliolanza. è la via del desiderio in senso pieno, cioè in grado di attingere la realtà, non ridotto a pura mossa interiore al soggetto. Il desiderio, in mille forme diverse, dice ad ogni uomo la necessità di essere amato definitivamente, perfino oltre la morte, e lo urge ad amare definitivamente, a sua volta. Qual è allora il criterio che verifica l’apertura totale del desiderio, consentendo questo definitivo reciproco amore?
Una suggestiva risposta ci viene dalla Bibbia: «Io sono la madre del bell’amore»(Sir 24, 18). Qui all’amore viene accostata la bellezza.
Cosa vuol dire bell’amore? Quando l’amore è bello? Tommaso parla della bellezza come dello “splendore della verità”. Per Bonaventura la persona che “vede Dio nella contemplazione”, cioè che lo ama, è resa tutta bella (pulchrificatur)[1].

La tradizione cristiana, con le parole del Salmo, definisce Gesù Cristo come «il più bello tra i figli dell’uomo» (Sal 45,3). Il bell’amore pertanto non è un’Idea astratta, ma la persona di Gesù, bellezza visibile del Dio invisibile, che per amore si è fatto come uno di noi. Il bell’amore imprime la sua forma in chi lo accoglie aprendolo a relazioni nuove e partecipate. Questo ci permette di dire che l’amore è bello quando è vero, cioè oggettivo ed effettivo. San Paolo, nel capitolo 5 della Lettera agli Efesini, lo rinviene nell’amore tra Cristo e la Chiesa intrecciato a quello tra il marito e la moglie (cfr Ef 5, 32-33).

2. Una nuova grammatica dell’amore?
Con la dottrina del bell’amore il cristianesimo ha dunque la pretesa di intercettare una delle dinamiche fondamentali della vita dell’uomo. Questo dato, tuttavia, non può ignorare le pesanti prove cui oggi sono sottoposte le relazioni, anche le più intime, come quelle tra uomo e donna, tra marito e moglie, tra genitori e figli.
L’amore non è mai stato una realtà a buon mercato, tantomeno lo è oggi. Proprio nelle relazioni amorose si avvertono gli effetti della difficile stagione che stiamo vivendo. è mutata la grammatica degli affetti, anzitutto nel suo elemento determinante che è la differenza sessuale. E dalla sfera privata tale processo sempre più va dilagando nella stessa vita civile.
Tra quanto viene quotidianamente immesso dai codici culturali dominanti e il messaggio cristiano del bell’amore sembra essersi scavato un fossato invalicabile.
Nell’attuale e magmatico contesto culturale si può ancora ragionevolmente credere nella proposta cristiana del bell’amore? Tanto più che molti uomini, pure segnati da secoli di evangelizzazione cristiana – e tra di loro non pochi praticanti -, non comprendono e rigettano gli insegnamenti della Chiesa in materia di amore e sessualità.

Come tacere inoltre, di questi tempi, la bufera che ha investito la Chiesa cattolica per il tragico scandalo della pedofilia perpetrata da chierici e talora coperta per negligenza o ingenuità dal silenzio di autorità ecclesiastiche? Lo scandalo pedofilia, con l’effetto di un detonatore, sembra a molti aver ridotto in frantumi la proposta degli stili di vita sessuale e la visione dell’uomo ad essi sottesa che da secoli la Chiesa persegue. Riguardo al problema specifico della pedofilia mi ha colpito l’osservazione: «La parola spesa in questi mesi da chi opera nel settore, sia esso medico, psichiatra, ricercatore, psicologo, giurista, occupa uno spazio del tutto irrilevante rispetto al fiume di parole emerse in questi mesi da giornali, radio, televisioni, dibattiti… Perché questo silenzio?… È auspicabile che alla denuncia degli scandali, giusta e doverosa, segua anche una riflessione ed un approfondimento della questione, per poterla affrontare in maniera efficace» .
Come pastore non ho una competenza specifica per tentare una qualche risposta circa la natura e le conseguenze di simili inaccettabili abusi. Mi sembra tuttavia che le parole-chiave – “misericordia”, “giustizia in leale collaborazione con le autorità civili”, ed “espiazione” – indicate con addolorata forza da Benedetto XVI nella Lettera ai cristiani di Irlanda, consentano di affrontare ogni singolo caso, dal momento che, come bene è stato detto, anche uno solo è di troppo. Il Papa non si sottrae alla corresponsabilità che ne viene ad ogni membro dell’unico corpo ecclesiale e, in particolare, del collegio episcopale. È uno scandalo che tocca l’intera Chiesa, chiamata ad una profonda penitenza, ad andare alle radici della misericordia, cioè all’incontro personale con il Tu di Cristo. Si tratta di una riforma che non potrà non riguardare tutti i livelli della sua missione.
Anche per queste ragioni sento la necessità di affrontare di petto la domanda circa la credibilità e la convenienza della proposta cristiana in tema di sessualità e di bell’amore.
Come questa radice costitutiva del desiderio dell’uomo può essere da lui concretamente vissuta?
Una sofisticata risposta ci viene dalle neuroscienze. In particolare le neuroscienze dell’etica si sono poste il problema dell’amore nel quadro del loro tentativo di spiegare in termini puramente neuronali il decisivo interrogativo antropologico: cosa significa realmente esistere come esseri pensanti (coscienti)? .
Helen Fisher, antropologa americana, considerata tra le esperte del settore, pubblica ormai da diversi anni libri e articoli scientifici, sia specialistici che divulgativi, sul tema dell’amore. La studiosa, con il suo team di ricerca, ha attribuito un’importanza considerevole al cosiddetto stadio dell’amore romantico (romantic love) . Esso – con l’attrazione sessuale (libido o lust) e con l’attaccamento (attachment) – si ridurrebbe, a detta dell’autrice, ad una delle tre reti primordiali del cervello attraverso le quali si snoda l’intera parabola affettivo-relazionale tra uomo e donna .
Non mi pare azzardato ravvisare in simili posizioni il tentativo di considerare l’uomo come puro esperimento di se stesso, secondo la forte ma emblematica espressione del filosofo della scienza Jongen.

3. Il dato incontrovertibile: l’io-in-relazione

L’alternativa all’uomo come esperimento di se stesso nasce dall’ascolto dell’esperienza umana comune. Essa rivela che l’altro/gli altri non sono una mera aggiunta all’io, ma un dato a lui originario. La personalità di ciascuno è immersa in una trama di relazioni: il dato relazionale è incoercibile.
Fin dal grembo di sua madre ogni uomo, come figlio o come figlia, è situato in una relazione costitutiva. La sua stessa nascita, per quanto potrà essere manipolata in laboratorio, custodisce il mistero dell’alterità: nessun uomo potrà mai auto-generarsi.
La prospettiva antropologica dell’io-in-relazione, accolta in tutta la sua ampiezza, ci porta a considerare in modo adeguato la differenza sessuale . Essa si rivela anzi come il luogo originario che ci introduce al rapporto con la realtà. È la prima ed insostituibile scuola per imparare l’alterità .
Per l’autore del Libro dei Proverbi «La via dell’uomo in una giovane donna» è considerata tra le «cose troppo ardue a comprendersi» (cfr Prov 30, 18-19). A questo proposito un grande biblista commenta: «L’uomo/donna è la via attraverso cui ognuno di noi è inoltrato nel mistero della vita; è ciò che fa passare l’uomo attraverso la figura di colei che sta al suo inizio e che lo fa uscire da sé quando nasce. Questo fa dell’incontro tra i due al tempo stesso un ricominciamento e qualcosa di nuovo» . In altri termini, quando l’uomo e la donna si incontrano fanno l’esperienza da una parte di ricominciare qualcosa che in forza della loro nascita già conoscono, dall’altra di dar vita ad una novità. Questa è possibile quindi perché l’incontro amoroso pone inevitabilmente all’uomo la domanda circa la propria origine. Potremmo esprimerla così: chi sono io che incontrando te incontro me stesso? In quanto situato nella differenza sessuale l’altro da me mi “sposta” (dif-ferenza) in continuazione, impedendomi di rimanere rinchiuso in me stesso.
Essere situati nella differenza sessuale si rivela pertanto come un grande dono che, bene inteso, diventa diffusivo di amore e di bellezza.
Qui sta l’inestirpabile radice della fecondità. L’amore non è mai un rapporto a due. Infatti la differenza uomo-donna, con questo suo valore originario, trova il suo fondamento nella differenza delle Tre Persone nell’unico Dio. Il bisogno/desiderio dell’altro che a partire dalla differenza sessuale ogni persona, come uomo e come donna, sperimenta non è pertanto il marchio di un handicap, di una mancanza, ma piuttosto l’eco di quella grande avventura di pienezza che vive in Dio Uno e Trino, perché siamo stati creati a Sua immagine.
Cristo Gesù, forma piena del bell’amore trinitario nella storia, spalanca ad ogni uomo e ad ogni donna la possibilità di partecipare a questa esperienza.


4. Assicurare gli affetti
Con la sua morte e resurrezione Gesù Cristo ci ha liberati dalla paura della morte (cfr Eb 2,14-16). Ciò è decisivo per vivere in pienezza gli affetti che si inscrivono primariamente all’interno dell’uomo-donna (differenza sessuale). La paura della morte, infatti, appare spesso la segreta padrona delle relazioni tra l’uomo e la donna, tra i genitori e i figli. Essa è all’origine della smania del “tutto e subito” nei rapporti amorosi che, con la stessa rapidità, si bruciano e si moltiplicano. Ritroviamo questa dinamica nel rapporto tra le generazioni: la decisione di generare o di non generare figli, sovente è determinata dalla paura del carattere contingente dell’esistenza.
L’antidoto contro il veleno di morte che penetra ogni umana relazione è tuttavia già presente nella storia. Sta nella manifestazione della verità dell’amore offertaci dalla morte-resurrezione pro nobis di Cristo.
La vittoria dell’Amore sulla morte fa brillare il senso pieno della differenza sessuale: il suo essere destinata al bell’amore che va oltre la morte.


5. La castità: una pratica conveniente
La proposta cristiana circa la sessualità e il bell’amore indica un percorso di vita che conduce a quella soddisfazione e a quella gioia cui il desiderio rettamente inteso spalanca l’uomo. Come educarci concretamente a vivere gli affetti secondo questa integralità ed autenticità? Emerge in proposito una grande parola oggi purtroppo caduta in disuso: castità. Se correttamente intesa, essa si rivela inscritta nella struttura stessa del desiderio come la virtù che regola la vita sessuale rendendola capace di bell’amore.
Casto è l’uomo che sa tenere in ordine il proprio io. Lo libera da un erotismo apertamente rivendicato e vissuto, fin dall’adolescenza, in forme sempre più contrattuali e senza pudore. Certo, l’amore è uno in tutte le sue forme, compreso l’amore ridotto a venere, per usare un’espressione cara a Clive Staples Lewis, il quale definisce così il mero esercizio della sessualità e lo distingue dalla capacità di amare, che implica eros ed agape (Deus caritas est). Ma anche quando si riduce ad un comportamento quasi animalesco, l’amore esprime, in modo del tutto distorto, una domanda di verità.
Nessuno uomo può essere casto se non stabilendo liberamente una gerarchia di valori: «La castità esprime la raggiunta integrazione della sessualità nella persona e conseguentemente l’unità interiore dell’uomo nel suo essere corporeo e spirituale» (CCC 2337). Se noi disaggreghiamo venere, eros ed agape ci condanniamo alla rottura tra la dimensione emotiva e quella del pensiero, di cui la morte del pudore è il sintomo più grave.
A queste condizioni l’esperienza del bell’amore diviene impossibile e il rapporto amoroso è ridotto a una meccanica abilità sessuale, veicolata da una sottocultura delle relazioni umane che si fonda su un grave equivoco: sull’idea, del tutto priva di fondamento, che nell’uomo esista un istinto sessuale.
Invece è vero il contrario, come dimostra certa psicanalisi : anche nel nostro inconscio più profondo tutto l’io è in gioco. La castità mette in campo un’esperienza comune a tutti. In ogni ambito della sua esistenza l’uomo sa bene di non poter trovare soddisfazione senza sacrificio.
Il sacrificio è una strana necessità, ma è la strada che assicura il godimento. Nella sfera sessuale e nei rapporti amorosi questo è particolarmente evidente. Perché abbiamo definito “strano” il sacrificio? Perché tutti noi avvertiamo una resistenza sana di fronte ad esso. Se siamo fatti per la soddisfazione, perché il sacrificio? Non è forse contrario alla natura della soddisfazione? Il valore ultimo del sacrificio non può quindi risiedere in se stesso, né nel fatto che mi sia imposto dall’esterno, da una qualsiasi autorità. Devo giungere a scoprirne la convenienza, cioè la sua intrinseca ragionevolezza per la piena riuscita della mia umanità. Esso è condizione e non fine.
La croce e la resurrezione di Cristo hanno la forza di mostrare che l’inevitabile sacrificio presente in ogni umana azione ha come scopo positivo il raggiungimento del proprio destino.
Il sacrificio spaventa quando non se ne sa il perché. La virtù della castità è una grande scuola al valore misteriosamente positivo del sacrificio. Essa chiede la rinuncia in vista di un possesso più grande. Posso rinunciare se sono certo che questa rinuncia mi fa possedere in pienezza il bene che voglio, come soddisfazione del mio desiderio. Il sacrificio non annulla il possesso, è la condizione che lo potenzia. Il puro piacere non è autentico godimento, tant’è vero che finisce subito. E se resta chiuso in se stesso lentamente annulla il possesso, lo intristisce, lo deprime. A ben vedere l’uomo cerca quel piacere che dura sempre, cioè il gaudium (godimento). Lo aveva ben capito Sant’Ignazio di Loyola. Mi colpisce sempre il fatto che, quando dico queste cose ai giovani, incontro più sorpresa ed interesse che obiezione. Intuiscono che un cammino di castità fin da adolescenti, attraverso la strada di un progressivo dominio di sé che rinuncia a comportamenti immaturi e presuntuosi, apre a una prospettiva di realizzazione nella quale si chiarisce il disegno amoroso di Dio su ciascuno di loro. Sessualità ed amore su queste basi si realizzano compiutamente come possesso nel distacco . In questa luce emergono in tutta la loro pienezza la vocazione alla verginità e al celibato così come quella al matrimonio indissolubile, fedele e fecondo tra l’uomo e la donna.


a) Verginità
La verginità come forma di vita riguarda solo alcuni chiamati alla imitazione letterale della umanità di Cristo, il quale ha vissuto in obbedienza povertà e nella perfetta continenza, e per questo rinunciano alla modalità comune dell’esercizio della sessualità, alla famiglia e alla generazione nella carne. Nella prospettiva del Regno di Dio la verginità anticipa il compimento finale che riguarda tutti gli uomini. Una simile forma di vita non prescinde affatto dal proprio essere situati nella differenza sessuale.

b) Celibato ecclesiastico
Per meglio comprendere questa affermazione conviene guardare in faccia a un’altra delle questioni oggi discusse, quella del celibato. La dedizione a Cristo che il ministero ordinato implica, sul modello del servo sofferente e del buon pastore pronto a spendersi per l’unica pecora perduta, consente ai sacerdoti di vivere il bell’amore.
Chi è chiamato alla verginità e al celibato non è uno che si sottopone a mutilazioni psicologiche e spirituali, ma un uomo che, praticando la castità perfetta, deve pazientemente arrivare all’unità spirituale e corporale del proprio io. La sessualità intesa come differenza non è riducibile alla dimensione genitale, a cui in nome del celibato si rinuncia. Tuttavia nella Chiesa di oggi è necessario uno sforzo educativo in grado di illuminare la scelta del celibato fin nelle sue motivazioni antropologiche. Occorre approfondire un dato lasciato un po’ in ombra. Mi riferisco alla natura nuziale della scelta verginale e celibataria. L’amore, fin dentro la Trinità, possiede sempre una dimensione nuziale, fatta di differenza, di dono di sé e di fecondità. Il celibato quindi non può essere adeguatamente compreso in termini meramente funzionali. Nel celibato il sacerdote non rinuncia al matrimonio e alla famiglia principalmente o solo per aver più tempo da dedicare al proprio lavoro ecclesiastico.
Dal significato profondamente cristologico, escatologico, ecclesiologico ed antropologico del celibato si capisce la ragione della sua profonda convenienza e pertanto della disciplina della Chiesa latina in proposito. Il celibato sacerdotale affonda le sue radici nella stessa chiamata apostolica che chiede letteralmente di “lasciare tutto”. A conferma di questo suo valore originario sta anche tutta la tradizione orientale che per l’episcopato, pienezza del sacramento dell’ordine, ha sempre esigito la scelta del celibato.


c) Indissolubilità del matrimonio
La virtù della castità getta piena luce anche sul carattere indissolubile della relazione coniugale tra l’uomo e la donna nel sacramento del matrimonio. In effetti l’amore per sua natura chiede il “per sempre”, nonostante l’umana fragilità. È nell’indissolubilità del matrimonio che la relazione tra l’uomo e la donna raggiunge la sua vera dignità. L’idea di una revocabilità del dono ferirebbe mortalmente il mistero nuziale e renderebbe inautentica la relazione stessa. Al contrario, l’indissolubilità garantisce la profonda aspirazione dell’uomo e della donna ad un sì irrevocabile. Il “sì” che si esprime nella scelta della verginità e nel celibato si pone così obiettivamente in relazione al “sì” che i coniugi si promettono per sempre nel matrimonio. La fedeltà non è una proprietà accessoria dell’amore. Semplicemente là dove non c’è fedeltà non c’è mai stato propriamente parlando amore. Pertanto i coniugi sono chiamati a vivere nel loro amore fedele, indissolubile e fecondo quanto viene espresso anche nella scelta della verginità e del celibato. Così come i vergini e i celibi incontrano nel matrimonio indissolubile una testimonianza convincente della dimensione nuziale della loro chiamata.


6. Bell’amore e amore casto
Tornando, in conclusione, al tema del bell’amore, siamo ora in grado di identificarlo con l’amore casto, quell’amore che entra in rapporto con le cose e le persone non per la loro immediata apparenza, in sé transitoria, né per il tornaconto che ne può ottenere: infatti «passa la scena di questo mondo» (1Cor 7). Il distacco chiesto nell’amore casto in realtà è un entrare più in profondità nel rapporto con Dio, con gli altri e con se stessi. Neppure l’umana fragilità sessuale rappresenta ultimamente un’obiezione fondata alla castità. Infatti la caduta non viene ad annullare la natura profonda dell’umano desiderio che continua a domandare riconoscimento della differenza sessuale e ad urgere il possesso vero, quello che mai si dà senza distacco. La figura morale compiuta dell’umano non è l’impeccabilità ma la “ripresa”. Essa registra, sempre più col passare degli anni, il dolore per ogni singolo peccato mentre per la grazia del perdono di Dio approfondisce l’amore. Agostino descrive con potenza questa umana condizione: «David ha confessato: “riconosco la mia colpa” (Sal 50, 5). Se io riconosco, tu dunque perdona. Non presumiamo affatto di essere perfetti e che la nostra vita sia senza peccato. Sia data alla nostra condotta quella lode che non dimentichi la necessità del perdono» .

[1] «Anima contemplativa, quae Deum videt in contemplatione, tota pulchrificatur» De S. Agnese virgine et martyre. Serm. II, 2 (Opera Omnia [Quaracchi], IX, p. 509). Cfr. su questo F. M. Tedoldi, La dottrina dei cinque sensi, 1.

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